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Hillary e i Fratelli musulmani. Se i sauditi fanno un assist a Trump (via mail)

Qualche giorno fa il dipartimento di Stato statunitense, guidato Mike Pompeo, ha fatto uscire una serie di email di Hillary Clinton – ex contender democratica alla presidenza nel 2016 – dal contenuto ambiguo e travisabile. I leak tenevano a dimostrare il coinvolgimento di Clinton e dell’amministrazione Obama – di cui faceva parte come segretario di Stato – nelle rivoluzioni mediorientali. Una cosa non certo nuova, spesso citata dai repubblicani, che in questo caso prendeva la forma plastica di una sorta di alleanza con la Fratellanza musulmana, un’organizzazione panaraba che interpreta il cosiddetto “Islam politico” e che lotta contro cambiamenti dello status quo.

La Fratellanza è stata per esempio protagonista nel rovesciamento del sistema oppressivo del presidente Ben Ali in Tunisia, oppure Hosni Mubarack in Egitto sette anni fa – quando i Fratelli egiziani riuscirono a far eleggere un capo di Stato, Mohammed Morsi, poi rimosso dopo appena un anno dalla rivoluzione anti-islamista guidata dal generale Abdel Fattah al Sisi. Sisi, che attualmente guida il paese, ha dichiarato la Fratellanza un’organizzazione terroristico e ha fatto giustiziare dozzine di decine dei suoi membri (che di fatto erano suoi avversari politici). La linea contro i Fratelli, condivisa dal Cairo, nasce in Arabia Saudita ed Emirati Arabi, due dei principali alleati americani nel Golfo.

Un paio di anni fa si vociferava della possibilità che anche Washington potesse decidere di includere la Fratellanza nelle liste delle organizzazioni designate come terroristiche, ma la volontà della Casa Bianca e di alcuni consiglieri falchi è stata sempre tenuta a freno dalle strutture (dipartimento di Stato, Cia, Pentagono). Realtà normalizzatrici che in questo caso temono che una mossa del genere, sebbene rafforzi i link con Dubai e Riad (e Cairo), indebolirebbe troppo i rapporti con Turchia e Qatar, i cui sistemi politici sono molto allineati sulle visioni della Fratellanza e dell’Islam politico.

È impossibile non pensare che la tirata sulle mail di Clinton sia anche a uso propagandistico interno, sebbene Pompeo abbia smentito, dichiarato che sia solo una faccenda di accountability. Tuttavia tra poche settimane si voterà Usa2020, e il tema delle corrispondenze dell’ex segretaria di Stato sembra un ritorno su un terreno proficuo; è stato già molto dibattuto quattro anni fa. Clinton fu infatti coinvolta in uno scandalo, aveva usato un server privato per inviare email mentre ricopriva l’incarico a Foggy Bottom, e secondo l’accusa dei repubblicani lo aveva fatto perché in quel modo aveva possibilità di nascondere i contenuti delle sue missive.

L’Fbi indagò, si aprì quello che veniva chiamato “Emailgate”, e alla fine tutto si chiuse con il direttore dell’Fbi – che è titolare di casi del genere perché si occupa di controspionaggio – che fece una tirata di orecchie pubblica a Clinton, ma non alzò nessun capo di accusa.

La candidata venne rimproverata pesantemente per la sua negligenza, ma non di complotti o cospirazioni contro gli Stati Uniti. Insomma, era stato un errore fatto in buona fede. Chiusura dell’indagine che chiaramente non accontentò i Rep e che fu usata da Donald Trump per spingere la narrazione del Deep State che difende Hillary e in generale i Democratici contro di lui (che invece è un rivoluzionario presidente della gente, secondo il suo storytelling). “Lock her up”, arrestatela, è stato uno slogan trumpiano molto funzionale, tanto che la stessa Clinton si trovò ad ammettere che lo scandalo le era costata una buona fetta di sconfitta.

La questione di questo nuovo micro-Emailgate quattro anni dopo è cavalcata anche dall’Arabia Saudita, che la usa per aiutare Trump – che si è spesso dimostrato aperto nei confronti delle richieste di Riad – e per far valere questioni interne oltre che la propria posizione nei confronti della Turchia. Quello sui sauditi è un caso interessante all’interno della vicenda. Innanzitutto il contesto: Riad (e Abu Dhabi) e Ankara sono sempre più ai ferri corti in questo scontro intra-sunnita, che trova sfogo per procura all’interno di svariati campi di crisi – per esempio in Libia, dove la Turchia aiuta il fronte tripolino mentre il blocco Egitto-Emirati (e Arabia Saudita) dà sostegno alle forze ribelli.

I sauditi hanno avviato un’infowar sul caso dei leaks recenti: media secondari e troll spingono sui social media una ricostruzione in cui si sostiene che, tramite l’allora capo della Cia, John Brennan, gli Stati Uniti volessero aiutare Mohammed bin Nayef come futuro re tagliando fuori Mohammed bin Salman. Bin Salam, anche MbS, è attualmente l’erede al trono perché ha spazzato via tutti i rivali, tra cui appunto bin Nayef (erede legittimo, deposto e imprigionato nel 2017 dai bravi di MbS), ed è alla continua ricerca di materiale per strutturare il consenso interno. Oltretutto bin Salman è piuttosto ostile all’amministrazione Obama perché in quegli otto anni i rapporti tra Washington e Riad si erano annacquati, dato che gli americani avevano siglato l’accordo con l’Iran per il congelamento sul nucleare – il Jcpoa, che riabilitava internazionalmente Teheran, nemica esistenziale di Riad.

La campagna, a cui David Ignatius sul Washington Post ha dedicato un articolo, è il solito ibrido di fatti reali – per esempio il plauso di Brennan alle attività anti-terrorismo di bin Nayef – e ricostruzioni alterate. Per esempio, viene citata una mail di Clinton – tra quelle leaked – in cui la segretaria di Stato parla con Jack Sullivan, uno dei suoi più stretti consiglieri ai tempi (era il 2012). Lei gli annuncia che la Fratellanza sta investendo 100 milioni di dollari in comunicazione (su al Jazeera, emittente qatarina) e Sullivan risponde che li consiglierà su come strutturare un’attività moderna. Per i troll sauditi è l’esempio di come gli Usa ai tempi stessero aiutando la Fratellanza. Val la pena ricordare che l’ossessione di MbS (e in generale della corte di Riad) per i Fratelli è ancora alta, al punto che per esempio al fondo del macabro assassinio del giornalista Jamal Khashoggi (ordinato secondo la Cia da MbS) pare esserci l’impegno di questo nel dar luogo a un movimento ispirato all’Islam politico.

Scrive Ignatius: “Forse i sostenitori sauditi di MbS immaginano che il loro clamore sulle email di Clinton aiuterà Trump prima delle elezioni del 3 novembre. Qualunque sia il motivo, la campagna [saudita] ci ricorda che le affermazioni di Trump, non importa quanto grezze, vengono ascoltate e amplificate all’estero in modi che potrebbero danneggiare gli interessi degli Stati Uniti”.


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