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Fate (più) presto. I deputati Uk chiedono di accelerare l’addio a Huawei

Fate presto. Più presto. È l’invito del Parlamento britannico al governo di Boris Johnson per garantire la sicurezza del 5G: l’esecutivo londinese dovrebbe valutare una rimozione di Huawei dalla rete di nuova generazione entro il 2025 (cioè due anni prima dei tempi decisi a luglio). È quanto si legge in un rapporto appena pubblicato dalla commissione Difesa della Camera dei Comuni.

LE TEMPISTICHE

“Se la pressione degli alleati per una rimozione più rapida dovesse continuare o se le minacce e la posizione globale della Cina cambiassero in modo così significativo da giustificarlo, il governo dovrebbe valutare se una rimozione entro il 2025 è fattibile ed economicamente fattibile”, recita il documento. La commissione sostiene che una mossa simile avrebbe costi maggiori per gli operatori di telecomunicazioni e l’economia; tuttavia, il quadro internazionale potrebbe spingere il Regno Unito ad accelerare rispetto ai piani annunciato a luglio che prevedono il divieto di acquisto alle compagnie telefoniche di apparecchiature 5G da Huawei dalla fine di quest’anno e l’obbligo di rimuovere completamente le componenti del colosso cinese dalle reti entro il 2027.

LE COMPENSAZIONI

La prima telco del Paese, BT (che da poco ha firmato un accordo sul 5G con Nokia), ha fatto sapere che rispettare l’attuale divieto costerà mezzo miliardo di sterline e che un divieto in meno di 5 anni potrebbe causare addirittura un blackout del segnale. Per queste ragioni, i deputati invitano il governo a prendere in esame forme di compensazioni agli operatori.

LA SICUREZZA

Secondo il sottosegretario al Digitale Oliver Dowden le sanzioni statunitensi introdotte a maggio hanno reso impossibile verificare la sicurezza della catena di approvvigionamento di Huawei: di conseguenza, anche un ruolo limitato del gruppo di Shenzhen nel 5G non è più considerati un rischio gestibile, scrivono i deputati nel rapporto.

LA COLLUSIONE

A pagina 5 del documento si legge: ci sono “prove evidenti di collusione” tra Huawei e “l’apparato del Partito comunista cinese”. Questa accusa — basata sulle testimonianze di accademici, esperti di sicurezza informatica e addetti ai lavori del settore delle telecomunicazioni — è stata respinta da Huawei. La società cinese ha risposto sostenendo che si tratta di opinioni, non di fatti. Non è la prima volta che accuse simili vengono mosse contro Huawei, che risponde sempre, in ogni parte del mondo, allo stesso modo. Ma “è chiaro che Huawei è fortemente legata allo Stato cinese e al Partito comunista cinese, nonostante le sue dichiarazioni contrarie”, conclude il comitato. “Ciò è dimostrato dal suo modello di proprietà e dai sussidi che ha ricevuto”.

LE TESTIMONIANZE

Tra le persone sentite dalla commissione nel corso dell’indagine c’è anche un venture capitalist, André Pienaar, che ha dichiarato che il governo cinese “ha finanziato la crescita di Huawei con circa 75 miliardi di dollari negli ultimi tre anni”, permettendo alla società di vendere il suo hardware a un “prezzo esageratamente basso” e mantenere un posizione dominante sul mercato. Christopher Balding, professor associata alla Fulbright University e associate fellow della Henry Jackson Society, ha affermato davanti alla commissione che Huawei si è “impegnata in una serie di attività di intelligence, sicurezza e proprietà intellettuale” nonostante le sue ripetute smentite. Steven Conlon di Rivada Networks (società statunitense sostenuta da Peter Thiel, uno dei pochi nella Silicon Valley a sostenere da tempi non sospetti Donald Trump, e che ha tra i lobbisti Karl Rove, già consigliere del presidente George W. Bush) ha sostenuto che ci sono prove che i dipendenti di Huawei siano obbligati a seguire le istruzioni dei servizi di sicurezza cinesi: alcuni sono stati collegati ad accuse di spionaggio. Come in un caso del 2018, quando l’intelligence australiana riferì che alcuni dipendenti di Huawei avevano fornito “codici di accesso per infiltrarsi in un rete estera”.

GLI ALTRI SETTORI

Il rapporto raccomanda di non “soccombere all’isteria anti-cinese” ma di verificare la presenza della Cina in altri settori considerati strategici per l’economia del Regno Unito (a partire dal nucleare) e di rafforzare i poteri del governo per intervenire nel caso in cui le tensioni diplomatiche si dovessero inasprire. Infine, c’è un forte sostegno all’idea di un’alleanza “D10” tra democrazie che potrebbe rappresentare il terreno fertile per lo sviluppo delle alternative alla tecnologia cinese. Una proposta simile verrà presentata nelle prossime settimane dagli esperti di tre think tank (Center for a New American Security, Merics e Asia-Pacific Initiative), autori di un rapporto che Formiche.net ha potuto leggere in anteprima.



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