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Il Centro, tra Conte e Zamagni. Scrive Lucio D’Ubaldo

È stato l’Avvenire, giornale della Conferenza episcopale, a  inquadrare con un titolo ad affetto – “Tutti guardano al centro. Aspettando Conte” – il sommovimento di un’area molto composita che va, ormai da tempo, alla ricerca di una nuova rappresentanza politica. La nota del quotidiano cattolico prende spunto dall’assemblea costituente degli amici di Stefano Zamagni, ma si dilunga subito appresso nell’elenco dettagliato delle varie iniziative in corso. A fine settimana si terrà a Saint Vincent, dove Carlo Donat Cattin ospitava negli anni ‘70-‘80 le riunioni della sua corrente, un altro convegno di analoga portata politica, recante stavolta il sigillo della Fondazione Democrazia cristiana. Il programma è incentrato sulla Laudato si, ovvero sulla possibile traduzione in chiave politica dei temi ecologici affrontati da Francesco. Nel frattempo, proprio in queste ore, il Papa ne ha divulgata un’altra di enciclica, la Fratelli tutti, che obbligherà a un qualche aggiornamento della discussione proposta.

A Saint Vincent, nell’ultima giornata, prenderà la parola il presidente del Consiglio. È la conferma di una tendenza che lascia intuire la manovra di adattamento a leader di partito del più camaleontico capo di governo che l’Italia abbia conosciuto dal 1861 ad oggi. Qualcuno potrebbe azzardare il paragone con Agostino Depretis, sebbene il trasformismo che inaugurò lo statista di Stradella avesse una direttrice chiara e feconda, essenzialmente votata a consolidare una maggioranza parlamentare attorno alla politica d’intervento dello Stato nell’economia, che segnò il passaggio dalla Destra storica alla Sinistra. Non si può dire, insomma, che l’operazione avviata nel 1876 fosse priva di sostanza politica, quasi che la formula che ne riassumeva l’intenzione e l’azione dovesse ridursi all’affastellamento d’interessi casuali e contingenti. In effetti, fu la mancanza di partiti organizzati, adeguati alle necessità di una democrazia in crescita, per la quale i vecchi equilibri e le vecchie formule non rispondevano più alle esigenza di sviluppo della giovane nazione, comportò la degenerazione del sistema e quindi la caduta a fenomeno negativo del modello trasformista.

Conte rischia di rimanere impigliato nel gioco di riposizionamento che alcuni provano a suggerire, senza calcolare le inevitabili conseguenze. In verità non ha grandi margini di azione. Prima dell’estate gli veniva chiesto quasi ufficialmente di fare il grande passo, perché il “partito di Conte” poteva surrogare l’indebolimento dei Cinque Stelle e stabilizzare perciò l’alleanza di governo; ora, viceversa, con l’avvitamento dei grillini in una crisi vorticosa e l’insoddisfazione strisciante del Pd, nonostante la tenuta nelle recenti elezioni regionali, la richiesta evoca e sollecita il rispetto di un ruolo super partes. Non è un cambiamento da poco, se Matteo Renzi, evidentemente spalleggiato, arriva a prospettare l’apertura di una nuova fase con l’entrata al governo di Zingaretti o in subordine di Orlando. Il messaggio appare alquanto ruvido: Conte può restare a Palazzo Chigi, ma sotto il controllo di una cabina di regia. Insomma, uno scenario non proprio esaltante per il premier.

Dunque, se la riorganizzazione del centro esige la consapevolezza di quali siano le forze in campo, per evitare che la rivendicata autonomia dalla destra e dalla sinistra si configuri in termini astratti, senza legami con la realtà, fuori dalla concreta dialettica politica; esige altresì – questa auspicata riorganizzazione – che non decada a pura ricerca di uno spazio di potere, come sarebbe l’ennesima invenzione di un partito personale. Il corto circuito tra vaghezza di approccio e astuzia di manovra può mettere a dura prova la credibilità di un progetto che si nutre necessariamente, pena l’immediata perdita di senso, del grande patrimonio di idee e di programmi appartenente al riformismo democratico. Il vapore delle buone intenzioni o l’artificio del movimentismo non sono, in conclusione, l’architrave di una nuova politica di centro.

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