Cosa c’è dietro la scelta di non aprire le basi agli aerei americani che monitorano Pechino nel Mar Cinese e cosa racconta delle difficoltà statunitensi nel compattare il fronte dell’Indo-Pacifico in chiave anti-Cina
Tre giorni fa la Reuters ha dato una notizia che misura lo scontro Usa-Cina e riguarda l’Indonesia e le difficoltà americane nell’Indo-Pacifico.
Giacarta, dopo lunghe pressioni americane, ha negato (di nuovo) l’apertura delle proprie basi aeree agli statunitensi, che vorrebbero usarle come scalo logistico per i P-8 Poseidon con cui la Us Navy monitora il Mar Cinese – snodo, nel Pacifico, del confronto tattico-strategico tra Pechino e Washington. Il governo indonesiano ha temuto che l’accettazione della richiesta americana potesse essere percepita dalla Cina in modo troppo negativo, e nonostante i due Paesi siano in rotta per questioni bilaterali che riguardano dispute marittime (proprio sul Mar Cinese Meridionale), vuole evitarsi ulteriori problemi.
La leva su cui conta Pechino per la contropressione silenziosa è quella economica. D’altronde, in mezzo alla crisi globale legata alla pandemia, il Partito comunista cinese ha recentemente comunicato nuovi, formidabili numeri: il Prodotto interno lordo del terzo trimestre è salito del 4,9 per cento – unico Paese del G20 a segnare certi valori, che nonostante tutto non si discostano troppo dal 6,1 del 2019. Il rimbalzo economico è anche parte di una narrazione ampia con cui Pechino sta cercando di rivedere la storia del virus, scoppiato nell’Hubei e diffusosi a livello globale anche per incuria e reticenza del Partito/Stato.
Anche sulla base di quel numero piuttosto confortante – 4,9 dopo il tonfo del 6,8 di gennaio-marzo – l’Indonesia potrebbe aver preso la decisione di non ospitare i Poseidon. Chiaramente, in questa fase la priorità economica è tale da lasciare indietro altri aspetti, seppure importanti. Giacarta affronta la questione con pragmatismo, conscia che gli affari con la Cina sono una dimensione a cui non può rinunciare (ci sono investimenti infrastrutturali, ci sono scambi commerciali in continua crescita e questioni di internazionalizzazione del renminbi, ci sono relazioni che si stanno approfondendo anche perché il Dragone fa paura e Giacarta vuole mostrarsi collaborativa).
L’Indonesia è tra i Paesi più riluttanti nello scegliere un lato nel grande scontro tra potenze che si sta snodando nel Pacifico, anche perché ha nella diplomazia economica uno dei goal della presidenza Jokowi, il cui mandato ha visto coincidere la necessità di rinnovare le infrastrutture con il lancio della Belt and Road cinese. Giacarta cerca di muoversi protetta dal blocco regionale Asean, perché sa comunque che un avvicinamento a Pechino non può essere totale, stanti le dispute sul Mar Cinese Meridionale.
Gli Stati Uniti soffrono dunque le necessità domestiche e sovrane dei singoli Paesi, mentre stanno cercando di stringere un progetto di contenimento nei confronti della Cina. Piano che procede rapidamente comunque, passa dal rafforzamento militare di Taiwan e dai monitoraggi (che gli Usa effettuano già attraverso gli scali in Malesia, Filippine e Singapore), dalla creazione di sistemi militari di pronto intervento come le nuove unità d’assalto anfibio dei Marines (in grado di muoversi con agilità massima pur mettendo in funzione mezzi di artiglieria come i lanciamissili multipli Himars) ai dispiegamenti marittimi. Operazioni con cui produrre anche pressione psicologica sul Partito/Stato.
Nell’Indo-Pacifico gli americani stanno gettando il seme di una sorta di “Nato Asiatica” anti-cinese, ma il processo è complicato. Della pericolosità della Cina possono anche riuscire a convincere diversi Paesi della regione, ma per ora non sembra fino al punto da ottenere una cooperazione militare esclusiva. L’Indonesia è in effetti paradigma: con Washington c’è una cooperazione militare, ma ha una struttura molto soft (con un focus sull’anti-terrorismo).
Giacarta vede meglio una via di mezzo tra Cina e Usa, che sembra abbia trovato nel Giappone: la collaborazione militare ed economica con Tokyo è più possibile, perché rappresenta un modo per evitare la dipendenza dalla Cina, ma senza che questo si traduca in operazioni troppo spinte (val la pena notare che il Giappone ha risposto non per adesso alla proposta della Nato-Asiatica, e che il premier Suga Yoshihide ha confermato la posizione di persona al preoccupato presidente indonesiano Joko Widodo).