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Indonesia e Vietnam, i primi due tasselli del puzzle anti-Cina di Tokyo

Il Giappone segue l’interesse nazionale nel Pacifico e cerca di smuovere i Paesi locali e compattarli (con delicatezza) contro la Cina. Tattica abbinata a quella simile americana

La vicenda dell’Indonesia – che non ha accettato di ospitare nelle proprie basi gli aerei americani che monitorano il Mar Cinese, ma ha aperto a una cooperazione militare col Giappone – è un caso di studio interessante per comprendere parte delle dinamiche che si dipanano in uno snodo cruciale del Pacifico (ambito strategico in cui si muove parte consistente del confronto Usa-Cina).

I riflettori si puntano su un attore chiave: Tokyo, che ha avviato un percorso personale nella regione. Si muove certamente al fianco degli Stati Uniti, condizione che lo porta automaticamente (oltre che per postura ancestrale e naturale) contro la Cina. Soprattutto il Giappone si sta posizionando come garante di interessi comuni a diversi Paesi dell’area da trattare con delicatezza diplomatica.

Su tutti, la libera navigazione: cuore di diritto di ogni potenza navale e di tutti gli Stati che hanno interesse nel garantire il commercio dei propria beni, la questione è centrale nel Mar Cinese Meridionale e Orientale – e vede coinvolti diversi Paesi che hanno tutti in corso contese con Pechino (tra cui anche il Giappone). Ma mentre gli Stati Uniti la rimarcano con passaggi militareschi tra quelle rotte – dove transitano 5 trilioni di dollari di merci ogni anno, val la pena ricordarlo –, Tokyo gioca con più raffinatezza.

Non senza dimenticare la sfera militare, però. Il governo nipponico guidato da Suga Yoshihide ha per esempio siglato di recente un importante accordo con il Vietnam, dove esporterà radar e aerei ricognitori. Saranno utili a monitorare Pechino nel Mar Cinese Meridionale, dove il Partito/Stato ha imposto negli ultimi tempi una militarizzazione molto spinta per piantare basi tra quegli isolotti contesi proprio per poter mettere degli avamposti con cui ottenere – di forza – il controllo di quelle acque.

Un accordo simile è stato raggiunto anche con l’Indonesia si diceva, che è stata la seconda tappa di Suga nel suo primo viaggio da premier. A Giacarta il giapponese ha garantito cooperazione (partiranno colloqui sulla sicurezza) ma ha rassicurato che si tratterà di un processo discreto, assicurando che la “Nato Asiatica” di cui parla Washington ancora non si concretizzerà – gli indonesiani temono che un’esposizione troppo netta contro Pechino possa compromettere le relazioni economiche con la Cina (e per questo non hanno aperto le basi agli Usa).

La tattica giapponese sulla presenza nelle acque del Sud-Est asiatico è simile a quella americana: potenziare le forze armate locali per creare una barriera anti-cinese. Ma se Washington rappresenta la potenza globale a cui è difficile dire di no, Tokyo ottiene consensi diretti perché parte in causa per geografia, cultura, attitudine. Su questo si snoda la narrazione giapponese riguardo all’Indo-Pacifico, che passa anche dall’ottenere maggiore peso all’interno del sistema multilaterale Asean. Su tutto sta l’interesse nazionale: per il Giappone contenere la Cina è cruciale.

Alla dimensione militare, i giapponesi ne abbinano un’altra altrettanto importante: quella economico-industriale. Da un’analisi dell’Asia Nikkei Review si scopre che ci sono già 15 aziende giapponesi che si trasferiranno in Vietnam: ambito dove faranno concorrenza alla penetrazione, o meglio diffusione, cinese. A Giacarta Suga ha stretto accordi per sviluppare infrastrutture nel Paese (memo: l’Indonesia è sulla Via della Seta cinese) e per un prestito da 470 milioni di dollari di forniture medico-sanitarie per combattere la pandemia (in netta competizione con gli aiuti di Pechino).

(Foto: Indonesia Presidential Press Bureau)

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