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Afghanistan. L’ambiguità dei Talebani e il processo di pace americano

Mentre procedono i negoziati con gli Stati Uniti, i Talebani tornano all’attacco. Dozzine di persone uccise in attentati questa settimana, nove in un attentato oggi. Nuove informazioni sul procedere dei contatti con Washington, tra realismo, dubbi e contromosse

Nove civili sono morti quando l’esplosione di un ordigno piazzato lungo una strada ha travolto un bus che viaggiava verso est uscendo da Kabul, la capitale dell’Afghanistan.

Sulla notizia ci sono alcune note da sottolineare, a cominciare dal giro da cui è partita: è stato infatti il portavoce del governatore della provincia di Ghazni – dove è avvenuto l’attentato – ad avvisare la Xinhua. È interessante dunque notare come l’agenzia di stampa cinese sia stata avvertita per prima, permettendo a Pechino di far circolare l’informazione: con un pizzico di malizia, si può notare come la questione dell’Afghanistan sia un elemento delicato per Washington, e su cui la Cina non perde occasione di far emergere incongruenze.

Gli Stati Uniti hanno infatti intavolato un negoziato – mediato tramite il Qatar – con i Talebani, che la Xinhua evidenzia come i responsabili di questo attentato. Di fatto il processo diplomatico spinto dagli Usa ha diverse falle, e sebbene serva come forma di stabilizzazione, arriva in un momento in cui la necessità politica – consegnare al presidente Donald Trump un successo da rivendere in campagna elettorale – è più forte delle reali contingenze. I Talebani non hanno mollato le armi, il Paese è tutt’altro che stabilizzato, ci sono anche ambiguità politiche interne al governo – che infatti era stato tenuto esterno dalla prima fase negoziale dagli americani.

Per favorire il negoziato di Doha, gli Stati Uniti avrebbero anche aiutato militarmente i Talebani: il Washington Post racconta infatti che hanno fornito assistenza aerea, attraverso droni, nella valle del Kunar, dove il gruppo jihadista afghano combatte contro i baghdadisti che hanno creato una filiale locale dello Stato islamico. È una scelta pragmatica, legata a una valutazione sul nemico: i Talebani non sono alleati americani certamente, ma interlocutori con cui si sta costruendo un accordo anche finalizzato a far sì che alcuni tratti del Paese non scivolino in mano alle forze dell’Is – che nel realismo necessario in certe situazioni sono il nemico peggiore possibile.

La vicenda della copertura aerea, sebbene apportata senza coordinamento (per scelta unilaterale americana e sulla base di informazioni raccolte dall’intelligence che osserva il territorio), è ovviamente controversa. Comanda l’ordine delle cose, e in questo momento per l’amministrazione Trump è importante uscire dall’Afghanistan – il valore elettorale sta nel porre fine al conflitto che fa da paradigma a quelle che il presidente chiama “endless war”. Per farlo usa tutti i mezzi a disposizione: è il potere di una super-potenza proiettata a raggiungere interessi superiori. E non è certo l’unica occasione in cui si verificano attività del genere. I puristi (o per meglio dire i contro-realisti) hanno dubbi: i baghdadisti sono una fazione esigua, raccolta (in forma semiclandestina) in aree ridotte; i Talebani sono migliaia e controllano parti importanti del Paese.

L’esperienza insegna. Quando negli anni d’oro del Califfato (2014, 2015, 2016) gli americani si affiancarono alle milizie sciite filo-iraniane ottennero successi momentanei sul campo contro l’Is. A distanza di anni, quelle milizie sono diventante una minaccia velenosa – da Baghdad a Fallujah fino a Bassora – per gli Stati Uniti e per i loro interessi. Le milizie si sono rafforzate col successo contro il Califfo e ora attaccano apertamente con operazioni a bassa intensità l’ambasciata statunitense nella capitale e i cittadini con passaporto Usa che si muovono nel Paese. D’altronde erano le stesse unità paramilitari responsabili delle stragi dei soldati Usa e alleati durante la Guerra d’Iraq.

Anche i Talebani non sono certo il massimo dell’affidabilità: non hanno mai ufficialmente mollato il sostegno ad al Qaeda (a cui hanno dato protezione per il 9/11) e soprattutto non hanno mai fermato gli attacchi contro i civili e contro le forze locali. Il Pentagono, su questo, al di là delle direttive della Casa Bianca, ha mani più libere: quando i ribelli afghani superano il limite, quei droni che li hanno aiutati rivolgono gli Hellfire contro di loro. Il principale inviato americano per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, ha detto all’inizio di questa settimana che i combattimenti stanno minacciando il processo negoziale. Ieri, l’Ong Amnesty International ha detto che almeno 50 persone sono state uccise in attacchi negli ultimi dieci giorni. Gli americani hanno più volte bombardato postazioni talebane.

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