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Perché il Kirghizistan è un’altra grana per Putin. Il commento di Tafuro (Ispi)

Le accuse di compravendita dei voti sulle elezioni parlamentari in Kirghizistan sono considerate “credibili” dagli osservatori dell’Osce. Da due giorni le proteste in strada infiammano la capitale Bishkek (dove è stato occupato il Parlamento, la cosiddetta “Casa Bianca”) e altre città, tra cui Osh – al confine con l’Uzbekistan, già teatro di vari scontri etnici in passato, il più grave dei quali, nel giugno del 2010, ha causato centinaia di vittime sia uzbeke che kirghise.

Quest’ultimo elemento dà la dimensione di come il rischio dell’espansione della situazione a livello regionale sia tanto vicino quanto devastante. “La regione è in subbuglio, con la crisi militare in Nagorno-Karabakh, la situazione irrisolta in Ucraina e le grandi proteste in Bielorussia. Ossia, tutta l’area post-sovietica è in disordine”, spiega a Formiche.net Eleonora Tafuro Ambrosetti, ricercatrice dell’Ispi specializzata su Russia, Caucaso e Asia Centrale.

“In generale, l’area centrasiatica, nonostante le forti differenze tra le varie repubbliche, è una polveriera. Stati come il Tajikistan o appunto il Kirghizistan, già tra i dieci più poveri al mondo, sono stremati dalle conseguenze economiche e sanitarie del Covid. E hanno, soprattutto il Kirghizistan, situazioni interne frammentate e relazioni reciproche non facili, nonostante gli sforzi di regionalizzazione degli ultimi anni spinti dalla nuova leadership kazaka”, spiega Ambrosetti.

Le proteste sono sostanzialmente democratiche (anche se ci sono stati scontri con le forze, con un morto e circa 600 feriti), e per ora non hanno una dimensione geopolitica. Il primo ministro Kubatbek Boronov si è dimesso martedì 6 ottobre, dopo che la Commissione elettorale ha annullato i risultati delle elezioni di domenica, falsate da brogli. Decisione forzata delle proteste di massa contro la vittoria delle forze politiche che sostengono il presidente Sooronbaï Jeenbekov – i partiti Birimdik e Mekenim Kirghizistan (avevano raccolto il 26 e il 24 per cento, e soltanto altri due partiti erano riusciti a superare la soglia del 7 per cento per poter esprimere rappresentati in Parlamento; uno solo di questi era di reale opposizione).

Il trambusto, che s’è portato dietro anche le dimissioni del presidente del parlamento, ha dato alla luce un nuovo esecutivo guidato da uno dei leader dell’opposizione, il fondatore del partito Mekenchilk, Sadyr Zhaparov. Zhaparov è stato liberato dai manifestanti dal carcere in cui si trovava, e lo stesso era successo nella notte tra lunedì e martedì con l’ex presidente Almazbek Atambayev. Evaso a furor di popolo, è stato lui a forzare la nomina di Zhaparov, agendo come un presidente-parallelo e liberandosi da quelle che considera vecchie “condanne politiche”. Dimostrazione questa, secondo quanto dichiarato dal presidente Jeenbekov, che “l’obiettivo principale dei manifestanti non era annullare i risultati delle elezioni”, ma rimuovere l’attuale leadership dal potere. Lo ha detto in un’intervista esclusiva che la BBC ha raccolto al telefono, mentre il capo di stato era rifugiato in un bunker segreto: Jeenbekov ha anche detto di essere pronto alle dimissioni.

Per ora la questione sembra clanica. Ognuno dei gruppi di potere, impersonato dai presidenti Jeenbekov e Atambayev, mette in discussione l’allineamento del Paese con la Russia – con cui condividono la Collective Security Treaty Organization, organizzazione anche a sfondo militare che lega Mosca ai clientes delle Repubbliche ex-sovietiche, da Bishkek a Yerevan fino a Minsk. Le proteste rappresentano una minaccia per il Cremlino, perché arrivano mentre l’Armenia subisce i colpi dell’Azerbaigian e in Bielorussia il regime Lukašenka subisce la piazza e si attira i riflettori internazionali.

“Mosca è l’attore più presente nell’Asia centrale, non solo politicamente ed economicamente, anche e sopratutto culturalmente. Nonostante questo, la Russia sta cercando di mantenere un po’ di distacco, cerca di inquadrare quelli kirghisi come problemi interni su cui non vuole avere troppo peso, anche perché è alle prese con altre questioni che reputa più serie”, spiega Tafuro Ambrosetti. Il Cremlino ha da fronteggiare innanzitutto la crisi economica, gravata dalla pandemia – secondo i dati dell’agenzia statistica statale Rosstat, i morti prodotti dal coronavirus tra marzo e agosto potrebbero essere più di 45mila, ossia oltre il doppio di quanto dichiarato dal Cremlino.

La Russia ha tenuto un profilo a basso coinvolgimento formale anche nella rivoluzione dei Tulipani del 2005 o nella Seconda rivoluzione kirghisa del 2010, e pure lo scorso anno, quando le proteste portarono all’arresto di Atambayev. La ricercatrice dell’Ispi spiega che “Mosca ha avuto un ruolo molto ambiguo, con l’ex presidente che era andato nella capitale russa pochi giorni prima del crack per chiedere supporto, con Vladimir Putin che lo aveva ricevuto in modo positivo, ma poi aveva rapidamente fatto appello all’unità nazionale attorno a Jeenbekov”.

Il quale Jeenbekov, val la pena ricordare, ha poi tagliato fuori Atambayev dall’esercizio del potere: “Una faida politica – continua Tafuro Ambrosetti – da cui i russi si sono tenuti piuttosto lontani. E immagino che anche nel caso attuale, ci sarà una volontà di fare un appello all’unità e poco di più”.

(Foto: Twitter)



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