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Non basta un freudiano Stefano Accorsi per il neo-espressionista Lasciami andare. La recensione di Ciccotti

Una ex coppia, Marco (Stefano Accorsi) e Clara (Maya Sansa) ha perso l’unico figlio, il piccolo Leonardo. L’uomo, ingegnere affermato, ora si è ricostruito una vita risposandosi con Anita (Serena Rossi, canta nei pianobar; ogni tanto beve), la quale dopo alcuni minuti di film, aspetta un bambino. Marco, che sta diventando papà, dovrebbe essere felice come Anita, ma qualcosa lo tormenta, il ricordo del figlio. Medesimo angosciante pensiero anche per Clara, che si incontra con l’ex marito per parlare di Leonardo. Marco frequenta un gruppo di analisi collettiva, per alcolisti e soggetti in depressione, desiderosi di liberarsi delle proprie angosce, guidato da una guida-coordinatrice (la convincente Antonia Truppo), che, nel sottofinale, scopriremo debole, depressa e insicura, oltre che professionalmente scorretta. Sta di fatto che una nuova inquilina della vecchia casa abitata dalla ex coppia, sul Canal Grande (siamo a Venezia), l’italo-americana Perla (la giustamente cupa Valeria Golino), entra nella vita di Marco. Lo rintraccia, per dirgli che suo figlio decenne, Giacomo, “vede e parla”, nella sua stanza, che era quella di Leo, con un altro bambino più piccolo: è appunto Leo. Lo descrive “sempre triste” e desideroso “che i miei genitori [Marco e Clara] tornino qui con me”.

Inutile dire che Marco dovrà muoversi, tra ingenuità iniziale e successiva cautela, acquisendo nel finale competenze di involontario detective. Sballottato tra la ex moglie che si aggrappa pirandellaniamente alla “vita del figlio perduto” (cfr. La vita che ti diedi), Anita stanca di credere in questa storia, e l’“americana” che sa nascondere, sino all’explicit (qui Mordini e gli sceneggiatori, Francesca Marciano e Luca Infascelli, mostrano l’aspetto migliore del film: la venatura da giallo abilmente “coperto”) la sua spietata doppiezza.

La struttura narrativa di Lasciami andare (tratto dal romanzo You Came Back, di Christopher Coake) è quella novecentesca, ossia del racconto “aperto”, alla Rashomon di Akira Kurosawa, per intenderci: lo spettatore può credere alla “vita-energia” post mortem, alle “connessioni” con chi ci ha lasciato, oppure no. Purtroppo sappiamo che sul channelling, sui contatti con i defunti, molti si sono arricchiti; infatti chi ha perso qualcuno è disposto a qualunque cosa per sapere “dove” e “come” sta il suo caro.

Gli sceneggiatori abbozzano anche una “soluzione” scientifica, tramite i due personaggi-professori che rispondono alle domande di Marco e Clara, uno studioso di religioni e un fisico: sia il corpo fisico che quello che è “dentro”, sono “pura energia”; dopo la morte rimane la stessa energia sotto un’altra forma. Lettura neopositivista poco originale, inaccettabile dal punto di vista cristiano, e pericolosa per quegli spettatori psicologicamente deboli.

La regia di Mordini in alcune parti pecca di sperimentalismo. La camera sovente agganciata ai primi piani e in continuo traballante movimento, al fine di tradurre, esteticamente, i tormentati e cupi mondi sotterranei dei personaggi, come del resto il montaggio molto “stretto”, si traducono in un ritmo eccessivamente asfissiante per lo spettatore.

Forse il pregio di Lasciami andare è in quel suo neo-espressionismo, che sarebbe piaciuto al Fritz Lang degli anni Venti, sia nel visivo che nei sotto-temi: interni scarsamente illuminati; volti in penombra (bravo il direttore della fotografia Luigi Martinucci); il motivo del doppio (doppio matrimonio; doppio tipo di donna: la solare Clara/la stressata Anita); i freudiani sensi di colpa (vedi i “segreti di un’anima”, G.W. Past) di Marco; la doppia personalità di Perla; il medium che sembra un dottor Mabuse giovane; la cupa tromba delle scale (topos del cinema espressionista); il collegamento con il mondo dei morti.

Lasciami andare, pur con le sue imperfezioni, per lo studioso è forse il miglior omaggio del cinema italiano per il centenario della grande “scuola” tedesca, che nasceva con il celeberrimo Il gabinetto del dottor Caligari (1920) di Robert Wiene.

(Foto: Andrea Pirrello)



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