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Perché esplodono le proteste di piazza. L’analisi del prof. Soi

Le proteste di piazza non sono state un fulmine a ciel sereno. La chiave di ogni buona politica della sicurezza è la prevenzione. I governi delle democrazie occidentali, in questa pandemia, hanno quasi sempre fatto l’opposto. L’analisi di Adriano Soi, docente di Intelligence e sicurezza nazionale presso la Scuola di Scienze politiche “Cesare Alfieri” di Firenze

Puntuali come una cambiale in scadenza, le piazze italiane si sono agitate a causa dei nuovi provvedimenti restrittivi adottati dal governo nel tentativo di contenere la seconda ondata di Covid 19. Non è stato un fulmine a ciel sereno ma il concretizzarsi di una eventualità da più parti prefigurata già prima dell’estate, sulla base della consapevolezza che viviamo in un Paese dove grande criminalità organizzata e reti antagoniste di varia natura sono sempre pronte ad attizzare il fuoco del malcontento popolare.

È molto probabile che per strada ci fossero soprattutto i professionisti dell’agitazione politica violenta, ma questa considerazione non deve trarre in inganno, perché c’è una stragrande quantità di persone rimaste a casa eppure sconcertate, preoccupate o, più sinteticamente, infuriate per il doppio giro di vite deciso dall’esecutivo nel giro di dieci giorni.

E non si tratta, come si potrebbe pensare, solo degli appartenenti alle categorie più direttamente colpite dalle limitazioni imposte dai due Dpcm. Si tratta, in realtà, di cittadini disorientati perché nessuno ha risposto alla domanda che tutti si fanno: è possibile che nei quattro mesi trascorsi dalla fine della prima ondata non siano state prese misure idonee a consentire al sistema-Paese (dalla sanità ai trasporti, dalle pubbliche amministrazioni alla scuola) di riorganizzarsi in modo da limitare, anche solo in parte, le possibilità di contagio senza dover nuovamente ricorrere a provvedimenti limitativi delle libertà individuali? E se nel giro di dieci giorni il governo è dovuto precipitosamente tornare sui suoi passi per correggere le disposizioni adottate in prima battuta, chi ci garantisce che tra una settimana ciò non accadrà ancora? Questo si chiedono molti, e da qui nasce lo smarrimento che, in mancanza di risultati concreti e di comportamenti meno ondivaghi, si può star certi tornerà ad affiorare e non riguarderà solamente cerchie ristrette di mestatori abituali.

La chiave di ogni buona politica della sicurezza è la prevenzione: quale che sia la posta in gioco – sovranità nazionale, integrità del territorio, sicurezza dei singoli o la loro salute – bisogna, nella misura del possibile, non lasciarsi sorprendere dagli avvenimenti, cercare di evitare che si verifichino e prepararsi comunque ad affrontarli, per contenerne gli effetti dannosi. Questo vale per un aggressione militare, per un attacco terroristico e valeva anche per la seconda ondata del Covid-19, con l’aggravante che non c’era alcun dubbio né sul “se” né sul “quando” si sarebbe verificata. Una volta tanto, le informazioni c’erano, il modo di comportarsi del ”nemico” era noto, i dati epidemiologici erano sotto gli occhi di tutti fin dal mese di settembre, eppure il Paese sembra essere stato colto alla sprovvista. La pre-visione era facile, bisognava pre-pararsi e pre-venire organizzandosi, proprio perché non c’era, e non c’è ancora, un’arma che ci permetta di sconfiggere il virus. Anticipare alcuni interventi – primo tra tutti l’uso obbligatorio della mascherina – avrebbe anche contribuito a creare una maggiore consapevolezza del rischio, che a molti in quel momento sembra svanito.

Il prefisso “pre” è presente in tutte le parole che esprimono i concetti-chiave della cultura della sicurezza. Pensarci prima, provvedere prima, prepararsi con il maggior anticipo possibile. I governi delle democrazie occidentali, in questa pandemia, hanno quasi sempre fatto l’opposto, intervenendo “dopo” e spesso senza efficacia, o con efficacia relativa. Un problema di classi dirigenti, troppo attente al consenso a breve e poco inclini a decidere, se non di fronte all’emergenza conclamata? È probabile: se ne occuperanno politologi e, forse, gli elettori.

Per l’Italia, possiamo dire che l’unico “pre” maneggiato con destrezza dal governo è finora stato quello del principio di “pre-cauzione” nell’assumere misure restrittive di grande impatto. A marzo, di fronte a un attacco improvviso avversario portato da un avversario sconosciuto, era comprensibile; oggi la situazione è diversa e la gente fa fatica a capire.

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