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#MeToo iraniano, se la rivoluzione contro Teheran è donna. Scrive l’amb. Terzi

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Il movimento #MeToo che sta emergendo in Iran è soltanto il più recente dei casi in cui la resistenza contro il regime oscurantista passa (anche) dalle donne. Scrive l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, già ministro degli Esteri

In Iran, Paese dove i diritti umani universalmente riconosciuti sono drammaticamente negati come sottolinea anche il recente rapporto del segretario generale delle Nazioni Unite, si sta levando sempre più forte la voce delle donne.

Sull’onda del movimento #MeeToo, anche nella Repubblica islamica dell’Iran alcune coraggiose stanno denunciando con crescente vigore alcuni dei numerosissimi casi di  abuso sessuale che vengono facilitati, e persino incoraggiati, dalla condizione di totale inferiorità e sottomissione della donna all’uomo: un’assurda condizione che è però legalmente sancita e meticolosamente attuata dalla teocrazia iraniana. Le denunce di violenze e abusi incontrano, nell’Iran attuale, enormi difficoltà legali. Esse devono infatti confrontarsi a un potere che fa della sottomissione femminile uno strumento di controllo religioso, economico e sociale sull’intera popolazione.

Non è certo un caso che il primo ostacolo da affrontare per chi denunci tali fatti sia costituito dal codice, dettato da un’interpretazione sciita particolarmente oscurantista della sharia. Esso stabilisce che sia proprio la donna a essere posta in una situazione al tempo stesso di “vittima” e di “colpevole”. È la donna, per esempio, a essere gravemente penalizzata da un onere della prova che attribuisce alla sua testimonianza e richieste di risarcimento solo la metà del valore riconosciuto all’uomo.

Dallo scorso agosto, ha scritto  il New York Times, #MeToo ha cominciato ad avere anche in Iran vasta risonanza soprattutto sulle reti che ancora riescono ad aggirare la pervasiva censura e disinformazione del regime. È su diversi social media che molti utenti, a loro rischio e pericolo, hanno cominciato a lanciare pesanti accuse contro più di 100 uomini particolarmente in vista: imprenditori e dirigenti, tra i quali il manager di una grande società di e-commerce; professori universitari e intellettuali, come uno dei più conosciuti sociologhi del Paese. Il caso più che avrebbe più colpito il pubblico, a causa delle rivelazioni emerse, riguarderebbe un artista di fama internazionale, assai conosciuto e apprezzato anche in Francia e assai legato al regime iraniano: Aydin Aghdashloo.

Seppur con tutte le difficoltà incontrate dalle donne iraniane sin dall’inizio del regime khomeinista, si è continuato a constatare anche negli ultimi anni quanto sia determinata, coraggiosa e inarrestabile la volontà, per grandissima parte della popolazione femminile iraniana di lottare; di spezzare le pesanti catene che un’interpretazione tra le più estreme della sharia impone loro da 41 anni; di riaffermare i diritti per una loro partecipazione alla vita politica, economica, sociale, negati sadicamente da uno dei regimi più sanguinari del mondo. Un governo teocratico che non ha mai esitato a compiere atroci crimini contro l’umanità nei confronti del suo stesso popolo; a reprimere con inaudita violenza ogni tipo di opposizione.

La storia della Repubblica islamica dell’Iran è costellata di tali crimini e persino di pulsioni genocidarie contro religioni, etnie, movimenti politici ritenuti “diversi” e come tali pericolosi nemici. Ne è ancora una volta prova la repressione indiscriminata di centinaia di manifestazioni che solo negli ultimi due anni hanno destabilizzato profondamente il regime, facendolo ancor più scivolare sul piano inclinato di una violenza esasperata.

Diffusa ribellione e estremo malcontento forniscono l’esatta misura di quanto sta accadendo in Iran: un intero popolo è esasperato dal disastro economico prodotto dal regime; dal drammatico peggioramento delle condizioni di vita; da una gestione della pandemia negazionista e del tutto incapace di contenerla per convenienze politiche; cinicamente insensibile alle sofferenze della popolazione; una corruzione endemica e incontrollata; una dilapidazione di risorse naturali disastrosa per l’ambiente, mirata all’arricchimento del regime e al finanziamento di un immenso apparato militare e di sicurezza.

La repressione ha visto spesso le forze di polizia sparare indiscriminatamente sulla folla; migliaia di persone arrestate, arbitrariamente detenute, torturate e uccise in carcere. Un quadro complessivo che è stato denunciato duramente nei giorni scorsi anche all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York.

Si tratta di un modus operandi per nulla inedito per le milizie del regime. Nessuno può aver cancellato dalla memoria l’assassinio a sangue freddo da parte di agenti Basij di Neda Agha-Soltan, durante l’“onda verde” insorta per protestare contro la rielezione “truffa” di Mahmud Ahmadinejad nel 2009. Le immagini della sua morte in un filmato  diffuso sui social network, centrata in pieno petto da un cecchino, scatenarono indignazione in tutto il mondo.

Caso ancor più emblematico riguarda il massacro del 1988 di almeno 30.000 oppositori, ordinato con una fatwa dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. Un crimine contro l’umanità — anzi, secondo molti giuristi un “genocidio” — a cui la Comunità internazionale in tutti questi anni non ha saputo che opporre un colpevole silenzio. Tuttavia, la questione è stata ora ripresa da un’importante indagine giudiziaria della magistratura elvetica avviata lo scorso luglio.

Ogni volta che il popolo iraniano ha voluto rialzare la testa contro i mullah o che iraniani in esilio si sono e si stanno battendo per mantenere accesi i riflettori del mondo su un regime che manca di qualsiasi legittimazione democratica, le donne sono sempre  in prima linea, e spesso vere protagoniste nella lotta per riavere i loro diritti e per garantirli all’intero Paese attraverso un cambiamento democratico. Pensiamo, per esempio, a Maryam Rajavi dal 1993 presidente del Consiglio nazionale della resistenza iraniana (Ncri). Proprio giovedì scorso nel corso di una conferenza organizzata dalla Resistenza per chiedere all’Unione europea l’inserimento del Corpo delle guardie della rivoluzione Islamica (Irgc) tra le organizzazioni terroristiche e l’espulsione di tutti i diplomatici e agenti che — come il diplomatico iraniano Assadolah Assadi processato in Belgio per terrorismo — in realtà operano per finalità terroristiche anche in Europa, l’attenzione è andata anche alle condizioni delle donne in Iran, al loro ruolo nella Resistenza, nella società, nella politica e nei processi decisionali.

Un sorprendente esempio di novità, in tal senso, viene dall’ex parlamentare iraniana Faezeh Hashemi, figlia dell’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, che in una recente intervista ha, seppur con notevoli distinguo e cautele, aperto alla necessità di un riconoscimento di Israele da parte della Repubblica islamica dell’Iran. Secondo la Hashemi, “l’Iran dovrebbe essere aggiornato per quanto concerne le relazioni esterne, prendendo esempio da quanto fatto da Emirati Arabi Uniti e Bahrain” nel solco degli Accordi di Abramo che ridisegnano l’intera mappa delle relazioni in tutto il Medio Oriente, considerata anche la recente normalizzazione di rapporti tra Sudan e Isaraele.

Tra le grandi protagoniste di quello che deve essere auspicato come un generale “risveglio” di una società così ricca di cultura, di pensiero e di storia come quella iraniana, un posto assolutamente centrale spetta all’avvocato per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, da sempre protagonista delle campagne contro la pena di morte e contro l’obbligo abusivo, degradante e discriminatorio per le donne di dover indossare il velo in Iran. Battaglie civili che negli anni le sono costate una serie di accuse e condanne giudiziarie, fino alla conferma in appello della condanna a 33 anni di carcere e a 148 frustate per il suo lavoro di difesa di quelle donne che nel 2017 vollero manifestare il proprio dissenso togliendo il velo in pubblico. Il suo instancabile lavoro per l’affermazione dei diritti umani in un regime disumano come quello di Teheran ne hanno fatto un’icona mondiale. Il Parlamento europeo nel 2012 le ha conferito il Premio Sacharov per la libertà di pensiero, mentre in Italia, molte sono le città che le hanno conferito la cittadinanza onoraria, da ultimo la città di Napoli proprio in queste ore. E Nasrin continua a essere atrocemente fatta soffrire dai carnefici in un carcere infame, dove le vengono negate le cure più essenziali.

Simboli, esempi di sacrifici anche estremi che non possono più rimanere impressi soltanto nella memoria di pochi. È ora di chiudere definitivamente questa tragica parentesi che da più di quaranta anni rappresenta un pericolo non solo per il popolo iraniano, ma per l’intera umanità. La Comunità internazionale, attraverso i numerosi strumenti di cui si è dotata per affermare la centralità dello stato di diritto, delle libertà, della democrazie e dei diritti umani, deve presto consegnare prima alla giustizia, e quindi alla storia, il regime iraniano.

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