La seconda città più grande dell’Azerbaijan, Ganja, è finita sotto un bombardamento dell’artiglieria armena. Le strade sono diventate uno scenario di guerra e ci sarebbero vittime civili, in un territorio ben distante dal Nagorno-Karabah — la zona contesa in cui il conflitto armeno-azero s’è riacceso in questi ultimi otto giorni — e lungo la Baku Supsa e la South Caucusus pipeline due gasdotti nevralgici (il secondo è quello che verrà ampliato con il Southern Gas Corridor, la pipeline che collegherà i giacimenti azeri in Mar Caspio all’Europa e all’Italia).
Nelle stesse ore, Stepanakert (capitale del Nagorno) e Sushi finivano sotto un nuovo intenso bombardamento. Baku non intende tollerare le velleità secessioniste e martella con le batterie Grad e i droni (made in Turkey). L’attacco odierno dimostra come l’obiettivo azero è colpire a fondo l’Armenia: bombardamenti sia su bersagli tattici sia su obiettivi random (anche civili) per spingere gli abitanti di quelle aree a scappare e cercare rifugio in territorio armeno. Condizione che obbliga Erevan a creare campi per rifugiati e fare i conti col problema dei profughi oltre che con la guerra in corso.
La situazione è molto complessa, oggi il presidente armeno ha parlato di “scontro finale”. Armenia e Azerbaigian non sembrano neppure disposti a discutere un cessate il fuoco. Al momento a prevalere sembra la logica delle armi e le dinamiche di guerra. E sul conflitto pesa la volontà turca (spalla di Baku) di trasformare la situazione nell’ennesima occasione in cui dimostrare la propria forza nella proiezione esterna (una capacità legata anche all’accettare il coinvolgimento militare, che è anacronistico e prende gli altri grandi Paesi in contropiede); nonché il ruolo di Mosca, che difende Erevan per accordi di partenariato ma che non ha nessuna intenzione di finire impantanata in un conflitto complesso.