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Perché gli Usa puntano gli occhi sul Nagorno-Karabakh

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Gli Usa approcciano più da vicino il dossier azero-armeno sia per necessità che per calcolo strategico. Ci sono le elezioni presidenziali dove offrire agli americani il successo di un cessate il fuoco, c’è la necessità di contenere la Turchia e l’intesa con la Russia

Che in questa ultima settimana gli Stati Uniti abbiano cambiato approccio sulla vicenda del Nagorno-Karabakh è visibile da due elementi.

Ma prima la premessa: finora Washington – sebbene parte del gruppo di contatto tra Armenia e Azerbaigian sull’annosa diatriba riguardo l’area contesa al confine – ha tenuto una linea defilata. Necessità (le elezioni presidenziali tra una decina di giorni) e calcolo strategico (Turchia e Russia si contendono il Caucaso, ossia si indeboliscono a vicenda) hanno finora portato gli Usa su una posizione più tranquilla. Però sono le stesse necessità e calcolo che hanno probabilmente imposto un cambiamento.

Primo punto: ieri sera l’ambasciata statunitense a Baku ha emesso un avviso riguardo al rischio che i concittadini corrono nella città. Possibili attacchi terroristici e rapimenti, indicato un luogo specifico (il Marriott Absheron, un bell’hotel affacciato sull’area portuale sul Caspio della capitale azera), in un warning molto generico. La nuova dimensione è il rischio di azioni terroristiche – di cui non è indicata la natura. Una fonte armena sostiene che è il modo con cui gli americani vogliono sottolineare che nel conflitto del Nagorno-Karabakh sono coinvolte unità siriane, spostate dai turchi (difensori fraterni degli azeri): per Erevan – secondo dichiarazioni di governo e presidenza – si tratta di “terroristi” e danno una lettura pro-Armenia di quella dichiarazione (come tutto, anche il conflitto armeno-azero è zeppo di spin e propaganda). Il giorno precedente però uno statement molto simile è stato diffuso dall’ambasciata americana in Turchia.

Secondo punto: nei giorni scorsi, il segretario di Stato americano ha cercato di stringere un contatto tra il ministro degli Esteri armeno e quello azero. Non ci sono state grosse evoluzioni dopo questo primo, palese impegno americano, e secondo un diplomatico europeo che chiede di non essere identificato è stato più che altro un modo per creare a Donald Trump un nuovo ambito di azione politica internazionale. Un tentativo da sommare ad alcuni risultati che l’amministrazione sta già rivendicando, come per esempio le normalizzazioni in corso nell’ambito degli Accordi di Abramo. Però è ritenuto un tentativo complesso e sostanzialmente infruttuoso, visto che è molto possibile che sul Nagorno-Karabakh Turchia e Russia abbiano già trovato un quadro di intesa per gestire in forma esclusiva il dossier.

D’altronde le recenti dichiarazioni di Vladimir Putin e il rimbalzo di Recep Tayyp Erdogan questo trasmettono. Si parla della possibilità che in ballo ci sia una concessione che Mosca permetterà agli azeri – e dunque ai turchi – su alcune province appena al di fuori del territorio conteso e che sono “occupate” (dicono gli azeri) da forze armene fin dagli anni Novanta. Ora, sembra che la spinta Baku-Ankara, fatta dall’abbinamento ormai noto di proxy-turco-siriani e droni Bayraktar (formalmente acquistati dall’Azerbaigian), stia portando grossi frutti. Turchi e azeri sono convinti che in poche settimane le difese nell’Artsakh (come gli armeni chiamano il Nagorno-Karabakh) crolleranno e questo significa che avranno strada spianata per un accordo da negoziare da una posizione forte.

Mosca aspetta l’evoluzione dei fatti sul campo. Certo, Putin non vuole che Erdogan si spinga troppo oltre, però accetta di retrocedere sull’Armenia – a cui teoricamente la Russia è legata da un accordo di cooperazione anche militare. Il Cremlino non fa che ripetere di essere neutrale e di considerare Baku un partner (si gioca il mercato del gas in Europa tra i due, in una partita molto superiore degli scontri in atto). Gli armeni hanno attaccato con salve di missili Ganja, una città di 300mila abitanti (la seconda più grande dell’Azerbaigian), che è ben al di fuori del territorio di scontro: un modo per provocare una reazione, ma per ora turchi e azeri restano concentrati sull’obiettivo.

Davanti a questo, gli Usa cercano di rientrare in gioco. Sia per necessità – cercare di sondare se è possibile trovare uno spazio per fermare la guerra presto, magari una dichiarazione di cessate il fuoco prima del 3 novembre da poter sponsorizzare, sebbene al momento, prima degli obiettivi apparentemente concordati è difficile che si arrivi a una tregua vera e non solo “umanitaria” (basta vedere i tentativi di queste settimane). Sia per calcolo: l’eccessivo spazio che potrebbe prendere la Turchia e l’intesa con Mosca sono problematiche a livello strategico all’interno di un Paese collegato agli Usa come l’Azerbaigian, e in un ambito delicato come il Caucaso. Cooperazione sensibile, quella tra Ankara e la Russia che per gli Stati Uniti è da tenere sempre attenzionata e gestita.


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