“Quando il populismo va al governo, può governare veramente? Credo di no”. Giancarlo Giorgetti soppesa sempre le parole. Il vice della Lega sa di essere un attenzionato speciale. Quando parla lui, scorre automatico un fiume di retroscena e analisi alla ricerca di un cenno, una chiave di lettura. È il prezzo per essere il Richelieu del segretario Matteo Salvini, il veterano e saggio consigliere del Carroccio che media, dialoga, dissente senza mai strappare.
Così non suonano casuali le parole scandite questo martedì pomeriggio, dalla sala della Stampa Estera a Roma. Chiamato a presentare il nuovo libro su Donald Trump di Andrew Spannaus, L’America post-globale (Mimesis) insieme a Massimo d’Alema e Germano Dottori, il vicesegretario leghista parla di America, ma una coda dell’occhio rimane fissa su Roma. “Parlo di Stati Uniti per non parlare di Italia, ognuno ne tragga la lettura che vuole”, dice lui a scanso di equivoci.
Giorgetti ripercorre i quattro anni di Trump alla Casa Bianca, e scorge un intoppo. “Il populista che viene eletto senza avere alle spalle gli apparati e le istituzioni che gli siano funzionali è in estrema difficoltà, qui nasce buona parte dei problemi di Trump”. In altre parole, chiosa, “il populismo è impossibilitato a governare se non ha al suo servizio l’apparato”.
“La resistenza della struttura ha impedito il dispiegamento delle politiche che Trump aveva in testa. Il caso più lampante è la vicenda russa”. Quello scontro frontale con il Deep State ha lasciato un segno sul Tycoon, dice lui, tanto da poter pronosticare oggi: “Vincerà Biden. Credo che prevarrà la logica del voto contro, come l’altra volta con la Clinton”. Nascosto fra le pieghe dell’analisi americana, ecco riaffiorare, ancora una volta, il Giorgetti-pensiero sulla Lega di governo. Cioè quell’invito a ripiegare, se non proprio a riporre, la veste della guerra a oltranza contro l’establishment per trovare un compromesso onesto, senza il quale non si (ri)entra a Palazzo Chigi.
Su quella traccia posa l’apertura di Giorgetti al Ppe e alla nuova Cdu, con cui la Lega “ha il dovere di dialogare”. Finora gelata sul nascere dal “Capitano”, e dal leghista di punta a Bruxelles Marco Zanni, “un’invenzione giornalistica”. Ma dietro le secche smentite procede un silenzioso lavorio, fatto di incontri, telefonate, cene con ambasciatori, che vede nell’ex sottosegretario a Palazzo Chigi un punto di riferimento.
Il canovaccio suona così: senza l’imprinting delle cancellerie estere, specie, va da sé, quelle europee e americane, senza un minimo di dialogo “con gli apparati”, governare stanca. Perfino Trump, figurarsi Salvini.