La posizione della Santa Sede sulla Cina è stata spiegata questa mattina dal Segretario di Stato Pietro Parolin al convegno promosso dal Pime a Milano in occasione del 150esimo anniversario dell’arrivo dei suoi missionari in Cina.
Sono molte le linee, le visioni che il cardinale Parolin ha offerto a tutti, anche i non specialisti. La prima è la continuità, dai tempi di Pio XII a quelli di Francesco. Una continuità che si capisce solo ricordando la storia, le guerre (dell’oppio e di Corea) e quanto disse monsignor Celso Costantini, primo delegato pontificio nella Cina post imperiale e pre-comunista, dal 1922 al 1933, che scrisse nelle sue memorie: “Di fronte specialmente ai cinesi, ho creduto opportuno di non dover accreditare in alcun modo il sospetto che la religione cattolica apparisca come messa sotto tutela e, peggio ancora, come strumento politico al servizio delle nazioni europee”.
Un’altra sua frase importantissima citata da Parolin consente di andare più a fondo, quando in Vaticano c’era più rabbia per gli accadimenti cinesi: il diplomatico obiettò che il comando evangelico non è state fermi e annunciate il Vangelo ma andate e annunciate il Vangelo. I duri capirono, ma forse anche i duri di Pechino, che espulsero i missionari.
A questo riguardo Parolin ha aggiunto che tanti pensavano che quell’espulsione avrebbe segnato la fine del cattolicesimo in Cina. Ma ha potuto constatare che nonostante tanto buio non fu la fine: la chiesa non è finita con l’espulsione dei missionari. Anzi, e questa è stata forse l’affermazione più importante, nella Chiesa patriottica cinese, quella non in comunione con Roma, fedele solo a Pechino, molti vescovi patriottici erano stati formati dai missionari. Traditori? La storia dei loro dolori, della loro richiesta di perdono al Papa nei tempi recenti, i tempi del disgelo, dimostra che la fede, la bella lezione, era rimasta con loro. Non avevano tradito, forse potremmo dire che i fatti, i tempi terribili, li avevano piegati, non spezzati. Davanti alla furia avranno in parte anche svolto un servizio alcuni di loro? Questo Parolin non lo ha detto e forse è troppo presto per chiedercelo.
Domani chissà. Ma intanto c’è una novità: “In questi due anni, intanto, ho notato segni di avvicinamento tra i cattolici cinesi che su tante questioni sono rimasti a lungo divisi.
È un segno importante perché, come dicevo due anni fa, alla comunità cattolica in Cina, ai Vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi, alle religiose e ai fedeli, il Papa affida in modo particolare l’impegno di vivere un autentico spirito di riconciliazione tra fratelli – ha aggiunto – ponendo dei gesti concreti che aiutino a superare le incomprensioni del passato, anche del passato recente”. “In questo modo i fedeli, i cattolici in Cina potranno testimoniare la propria fede, un genuino amore e aprirsi anche al dialogo tra tutti i popoli e alla promozione della pace”.
Una novità imprevedibile? Quel che si sa, e che Parolin ha detto, è che già ai tempi di Zhou Enlay si aprì un varco. “Il 17 gennaio 1951 – ha detto il Segretario di Stato – le autorità invitarono alcuni vescovi e sacerdoti cattolici ad un incontro cui partecipò anche il Primo Ministro e Ministro degli Esteri Zhou Enlai. Questi assicurò che i cattolici avrebbero potuto continuare a seguire l’autorità religiosa del Santo Padre ma dovevano assicurare piena lealtà patriottica nei confronti del loro Paese. Iniziò allora il tentativo di stendere un documento contenente questi due principi, cui parteciparono non solo vescovi e sacerdoti ma anche il segretario dell’internunzio Antonio Riberi: quest’ultimo lo inviò infatti a Pechino proprio perché partecipasse a tale tentativo. Ciò mostra che fin dal tempo di Pio XII, la Santa Sede avvertì l’esigenza del dialogo, anche se le circostanze di allora lo rendevano molto difficile”.
Nei primi mesi del 1951, furono redatte ben quattro stesure di un possibile accordo, ma purtroppo non venne considerata soddisfacente. “Credo che al fallimento di tale tentativo abbiano contribuito – oltre alle tensioni internazionali: erano gli anni della Guerra di Corea – anche le incomprensioni fra le due parti e la sfiducia reciproca. È un fallimento che ha segnato tutta la storia successiva”.
Forse è questa la novità per tanti non addetti ai lavori, mentre che Benedetto XVI avesse approvato l’accordo provvisorio poi entrato in vigore nel 2018 era già noto, tranne che a chi lo nega. Ma le carte depositate alla Segreteria di Stato vaticana lo confermano. Dunque “molto attuale mi pare anche un altro obiettivo che ci proponevamo con la firma dell’Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese sulla nomina dei vescovi: il consolidamento di un orizzonte internazionale di pace, in questo momento in cui stiamo sperimentando tante tensioni a livello mondiale”.
Come tutti anche Parolin sa che i problemi tra Santa e Cina non si riducono alla nomina dei vescovi, ce ne sono molti altri, importantissimi e questo ha dato adito a “malintesi. Molti di questi nascono dall’attribuzione all’Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese di obiettivi che tale Accordo non ha. Oppure dalla riconduzione all’Accordo di eventi riguardanti la vita della Chiesa cattolica in Cina che sono ad esso estranei. O ancora a collegamenti con questioni politiche che nulla hanno a che fare con questo Accordo. Ricordo ancora una volta – e su questo punto la Santa Sede non ha mai lasciato spazio a equivoci o confusioni – che l’Accordo del 22 settembre 2018 concerne esclusivamente la nomina dei vescovi”.
Perché senza risolvere questo problema sarà impossibile sperare di poter cominciare a risolvere gli altri, tutti attinenti alla libertà nelle sue diverse espressioni. Ma l’assoluto dell’imperatore che si è sempre definito “figlio del cielo” e che il segretario del Pcc continuano a vivere così si può cominciare a cambiare solo partendo di qui.