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Perché Trump non ha mai vinto il Nobel. Il retroscena di Pellicciari

Uno degli effetti più evidenti dello scorrere del tempo è il cambio delle percezioni su persone, cose, avvenimenti finanche su idee e concetti più elementari.

La Storia, forse la più debole tra le scienze sociali perché non riesce a dotarsi di un unico metodo di ricerca condiviso, è tuttavia compatta nel considerare legittimo (anzi, centrale) il descrivere l’evoluzione delle sensazioni su determinati argomenti. Per fare questo ricorre all’osservazione delle fonti che trova sul suo percorso.

Poiché l’odierno infotainment (informazione spettacolo H24) è fenomeno piuttosto recente, un ruolo centrale delle fonti, quando si guarda al passato pre-Web, è rappresentato dalla carta stampata, usata come cartina di tornasole per raccontarci la percezione diacronica di un certo tema.

Ebbene, i giornali del ‘900, probabilmente finora il secolo più denso di avvenimenti documentati, ci dicono tutti all’unisono che tra i pochissimi miti ad essere rimasti intatti allo scorrere di decenni e sistemi politici vi è il Premio Nobel.  Vero totem del successo per chi lo riceve.

La lauta dotazione in denaro che accompagna il premio è secondaria rispetto alla percezione di prestigio che porta, mantenutasi intatta con una sacralità laica che ne ha fatto meta ambita per decine di studiosi.

Altri programmi più recenti elargiscono fondi anche maggiori, come l’ERC (www.erc.europa.eu) dell’Unione Europea che finanzia progetti di ricerca (Bruxelles come al solito pensa di ovviare alla scarsa visibilità mettendo mano al portafoglio, ahimè con i noti frequenti scarsi risultati).  La loro eco tuttavia a mala pena esce fuori dai ristretti circuiti accademici che cercano di accedervi.

Vincere, meritarsi un Nobel è entrato nel gergo comune come espressione di una raggiunta eccellenza assoluta, associata anche a settori nei quali il premio non viene assegnato. In questo immaginario, il riconoscimento che maggiormente incarna lo spirito del premio è il Nobel per la Pace.

Storicamente, perché il premio fu istituito dallo stesso Alfred Nobel, inventore della dinamite, come compensazione morale per la portata distruttiva della sua scoperta. Oggi, forse, perché tra le sei categorie previste dal premio è l’unico assegnato non sulla base di meriti scientifici o letterari.

Un po’ come accade con la presidenza Usa potenzialmente “aperta a tutti”, incuriosisce il fatto che per aggiudicarsi un Premio Nobel per la Pace non serva appartenere ad una ristrettissima élite di geni ma basti essere un “eroe di tutti i giorni” in cui è più facile immedesimarsi.

Quest’anno il premio è stato assegnato al World Food Programme (www.wfp.org). Optare per una organizzazione internazionale piuttosto che una persona fisica è una scelta già fatta svariate volte in passato, soprattutto negli ultimi due decenni, e che tuttavia apre una serie di riflessioni che rimettono in discussione la credibilità e legittimità stessa del premio.

La prima questione, forse la più immediata, è di carattere logico con implicazioni giuridiche. Uno dei fondamenti della cultura liberal-democratica è che la responsabilità delle azioni è soprattutto individuale piuttosto che collettiva. È un principio in genere usato nel campo dell’azione penale ma che vale anche per le azioni virtuose.

Premiare genericamente una istituzione – senza fare distinzione tra chi al suo interno si sia distinto e sacrificato e chi invece ha, magari svogliatamente, svolto un lavoro dovuto con piglio burocratico – fa scadere il tutto in una pesante retorica che perde di vista il significato originario del Nobel per la Pace. Ovvero, il premiare chi si espone in prima persona per compiere scelte audaci, non scontate ed impopolari.

Applicando la stessa logica del Wfp agli altri Nobel di carattere scientifico, si dovrebbero premiare non i singoli scienziati autori delle scoperte ma le istituzioni cui essi appartengono e che in fin dei conti ne hanno finanziato le ricerche.

Un’altra questione, derivata dalla precedente, è di carattere morale. Il Wfp è una agenzia nata con un  chiaro alto  mandato, dichiarato a monte nel suo stesso nome.

Professionismo a parte (chi vi lavora nella maggior parte dei casi percepisce compensi in linea con quelli delle Agenzie Onu, quindi ben sopra la media), a destare sorpresa dovrebbe essere non tanto il riuscire a centrare gli obiettivi dichiarati, per i quali si ottengono lauti finanziamenti, quanto il contrario.

Volendo premiare una organizzazione piuttosto che un singolo, sarebbe stato più auspicabile concentrarsi su quelle istituzioni che – nate con obiettivi “scomodi” – si sono sforzate di interpretare il loro mandato in forma alternativa umanitaria ed in controtendenza rispetto a quanto fanno altre simili realtà.

Al netto di queste considerazioni, tuttavia, la principale questione resta di carattere politico.

In primo luogo, premiare una organizzazione internazionale dell’universo Onu per quello che dovrebbe fare a prescindere, per paradosso, ne conferma la profonda crisi di legittimità, aggravatasi con la crisi del Covid-19.

La dice lunga la necessità del mainstream di ricorrere a questi premi nel tentativo di limitare lo scetticismo generalizzato che oramai investe la dimensione dell’azione multilaterale, alimentato dal ritorno al centro della scena internazionale degli Stati-Nazione.

Infine, il premio al Wfp ci dice dell’attuale mancanza quasi cronica di leadership carismatiche mondiali che possano credibilmente essere riconosciute come portatori universali di pace.

Equivale anche all’ ammissione dell’incapacità da parte del Comitato per il Nobel di avere il coraggio di premiare oggi iniziative politiche di pari livello di altri Nobel del passato (come l’accordo tra Nelson Mandela e Frederik De Klerk in Sud Africa o tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat in Medio Oriente).

Obiettivamente, il recente accordo storico sottoscritto tra Emirati Arabi Uniti e Israele sotto gli auspici degli Usa meriterebbe un riconoscimento; ma sia Benjamin Netanyahu che Donald Trump sono personaggi troppo divisivi e controversi per ottenere un premio.

Anche in presenza di un messaggio importante, a mancare oramai è il messaggero politicamente corretto. Dovendo dare un premio comunque, il Comitato per il Nobel ha preferito annullarne il potenziale politico e non rischiare.

Come il giocatore di calcio che, nella speranza di allontanare il pericolo dalla propria area di rigore, calcia la palla in tribuna. Invece di giocarla.

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