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Il tagliando al reddito di cittadinanza? I suggerimenti (giuridici e tecnici) di Balducci

Il reddito di cittadinanza non è uno strumento sbagliato ma uno strumento molto mal costruito. Balducci passa in rassegna gli snodi che richiedono di essere messi a punto

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha recentemente dichiarato che il “reddito di cittadinanza” necessita una sorta di tagliando di revisione. Condivido totalmente questa idea. Sono personalmente convinto che il reddito di cittadinanza non sia uno strumento sbagliato ma uno strumento molto mal costruito. Non mi piace poi la sua denominazione “reddito di cittadinanza” , denominazione che parrebbe suggerire il diritto ad un reddito per il semplice fatto di essere cittadino, senza che questo cittadino sia chiamato a produrre alcun sforzo per meritarsi tale reddito.

Cercherò di passare rapidamente in rassegna gli snodi che richiedono di essere messi a punto.

Il “reddito di cittadinanza” investe due aspetti: (i) uno relativo agli sforzi che le strutture pubbliche devono fare per reinserire nel circuito dei cittadini attivi coloro che sono fuori di tale circuito (questi sforzi rientrano nell’area dei “servizi di assistenza sociale”); (ii) uno relativo agli interventi che le strutture pubbliche sono chiamate a realizzare per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e per garantire l’aggiornamento continuo del così detto “capitale umano” (queste attività rientrano nelle politiche attive del lavoro).

Queste due finalità fanno riferimento in Italia ad assetti normativi diversi e nel resto del mondo danno luogo a interventi distinti. La prima cosa da chiederci e se non sia opportuno separare i due interventi, quello relativo al reinserimento nel contesto sociale attivo di chi ne è fuori e quello di garantire un funzionamento fluido dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, sforzandosi di mettere a disposizione del mercato del lavoro risorse professionali aggiornate.

Consideriamo i due aspetti separatamente.

Gli sforzi per reinserire nel circuito sociale attivo rientrano nell’attività di “servizio sociale” regolamentata dalle legge 328 del 2000 e sono competenza delle Regioni. La Commissione Ue, tra l’altro, ha deciso che il 30% delle risorse del fondo sociale europeo debba essere finalizza al sostegno al reinserimento. Qui si segnala quanto meno una sovrapposizione di compiti ed un doppione di spese. Attualmente le regioni stanno tentando di gestire questi svariati miliardi che ci arrivano da Bruxelles per offrire un sostegno economico a chi ne ha bisogno, cioè per fare proprio quello che si propone il reddito di cittadinanza. Trovo poco gradevole l’idea che, con le difficoltà finanziare e di bilancio che abbiamo, si raddoppino gli sforzi in tal modo. Per non menzionare per di più il fatto che non siamo in grado di spendere le risorse Ue che rimandiamo indietro all’incirca per il 70% del loro ammontare.

Passiamo ora alla seconda componente del reddito di cittadinanza: l’inserimento del “cercatore di impiego” nel mondo del lavoro. Qui abbiamo due nodi da sciogliere: (i) da una parte un noto istituzional-finanziario simile a quello del sostegno al reinserimento visto sopra; (ii) da un’altra parte abbiamo la necessità di creare strutture tecniche adeguate in grado di assolvere la funzione che oggi dovrebbe essere assolta dai fantasmagorici “navigatori”. Vediamo succintamente i due aspetti.

L’inserimento al lavoro ed l’intreccio istituzional-finanziario. Qui il reddito di cittadinanza si incrocia con i fondi interprofessionali. Si tratta del fatto che lo 0,30% della massa salariale lorda dei dipendenti del settore privato (compresi i soci delle cooperative) viene destinato ad iniziative formative a favore dei lavoratori. Il meccanismo per la gestione di questi fondo è farraginoso al punto che buona parte di questi fondi non vengono spesi o vengono sprecati in iniziative dubbie. In buona sostanza questo 0,30% viene versato all’Inps. A questo tesoretto possono accedere enti bilaterali costituiti da per lo meno una organizzazione datoriali ed un sindacato. Questi enti bilaterali sono attualmente 21 e danno luogo ad una concorrenza spietata per raccogliere i cedolini degli stipendi sulla base dei quali possono farsi devolvere i fondi dall’Inps. Ogni impresa ha diritto a farsi formare i propri dipendenti in ragione dei soldi versati (si dice che ogni impresa ha il suo conto). Ne risulta che ca. il 90% di imprese italiane che hanno meno di 10 addetti non cubano un ammontare sufficiente per coprire i costi di un serio aggiornamento dei propri dipendenti. Questo dà luogo ad un fenomeno molto opaco: il tentativo da parte dei 21 enti bilaterali che gestiscono questi fondi di mettere insieme imprese diverse per poter far partire dei corsi dotati di un plafond sufficiente a coprire i costi. Il risultato è che questi soldi o non vengono spesi o vengono spesi in iniziative dubbie veramente borderline. La maggior parte delle poche volte in cui queste risorse vengono spese in iniziative formative serie sono per realizzare corsi obbligatori per legge (generalmente corsi sulla sicurezza) non per corsi miranti all’accrescimento professionale dei lavoratori. Qui urge, oltre una razionalizzazione del sistema dei fondi interprofessionali (sostanzialmente urge abolire il portafoglio impresa, che di fatto impedisce ai dipendenti delle Pmi di usufruire di corsi di aggiornamento), un coordinamento con gli uffici del lavoro e le politiche attive del lavoro. Anche qui si potrebbero realizzare, migliorando il servizio, notevoli risparmi.

L’incontro tra offerta e domanda di lavoro. I navigatori sono destinati a fallire, non tanto e non solo perché sono personaggi privi di competenza in materia (i corsi che si stanno attivando per prepararli sono inoltre inutili) ma perché non dispongono delle informazioni necessarie. Le politiche attive del lavoro fanno riferimento nei Paesi del Nord Europa ad un sistema di profili professionali cui si riferiscono i datori di lavoro e i cercatori di impiego. Un buon esempio in lingua italiana lo si può trovare nella Svizzera di lingua italiana al sito www.orientamento.ch . Il fatto è che i numeri sono tali che è impossibile concepire un serio incontro tra domanda e offerta di lavoro. Senza questo strumento è impossibile accoppiare domanda e offerta e, alla fine, il datore di lavoro si accontenta di un collaboratore non qualificato e il cercatore di impiego di un lavoro per cui non è formato. Sopra le Alpi il datore di lavoro che cerca un collaboratore fa riferimento a queste griglie così come il cercatore di impiego si candida per la griglia in cui si identifica. La griglia può essere usata sia dagli uffici pubblici equivalenti ai nostri centri per l’impiego che da agenzie private, tra le quali un ruolo importante è giocato dalle agenzie di lavoro interinale.

Qui attualmente sta prendendo copro un grosso equivoco che vedo profilarsi all’orizzonte. L’equivoco consiste nel fatto che si possa pensare che per gestire l’incontro da domanda e offerta di lavoro sia necessaria chissà quale fantascientifica strumentazione informatica. Indubbiamente un computer ed un collegamento al web serve. Ma quello che veramente serve è la creazione della griglia dei profili professionali.

Sulla griglia in effetti non partiamo da zero. Molte regioni (tra le quali la mia Toscana) hanno messo a punto una griglia simile. Lo hanno fatto per rispondere ai requisiti di Bruxelles che pretende una individuazione precisa dei profili per cui si realizzano i corsi di formazione finanziati dal fondo sociale. Le griglie esistenti non sono però direttamente utilizzabili ed hanno bisogno di una notevole rifinitura. Sopra le Alpi queste griglie sono state create (nella notte dei tempi) e vengono costantemente aggiornate da un costante dialogo tra organizzazioni datoriali e sindacati. Da noi queste griglie sono state create dalle burocrazie regionali con l’aiuto di ditte di consulenza esterna totalmente prive di competenze in materia. Queste griglie dovrebbero individuare i “saperi” e i “saper fare” necessari per svolgere le attività di un determinato profilo. Saperi e saper fare che sono conosciuti dagli operatori e non da burocrazie regionali e da ditte che finiscono per definire i profili presso che esclusivamente in chiave psicologica.

Il “reddito di cittadinanza” ha bisogno di una profonda e radicale revisione. Questa revisione deve essere programmata in modo che non si perda di vista l’insieme delle problematiche. Non vorrei che ci si illuda che siano sufficienti due o tre ritocchi di facciata.


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