Ich bin ein Berliner. Sarà un caso che gli (ex?) euroscettici italiani, dalla Lega al Movimento Cinque Stelle, cerchino sottovoce di aprire un dialogo con la Germania madre e madrina dell’Ue che volevano ribaltare solo un anno fa? No, non è un caso, dice a Formiche.net Sergio Fabbrini, politologo, direttore del Dipartimento di Scienze politiche alla Luiss, in libreria con “Prima l’Europa” (Sole 24 Ore, con la prefazione di Giuliano Amato). Mentre tramonta l’era di Angela Merkel, si è aperta la lotta per la successione della Cdu, il baricentro politico del Vecchio Continente. Lì, fra le faglie aperte dal sisma tedesco, si deciderà il destino (anche) della politica italiana.
Prima l’Europa. Adesso pure gli euroscettici parlano mattina e sera dell’Ue. E senza tante grida.
Perché la risposta alla pandemia del coronavirus ha dimostrato che senza l’Ue nessun Paese può far da sé. La vicenda del Regno Unito insegna: solo, fuori dall’Ue, sta attraversando una delle più gravi crisi esistenziali della sua storia. La pandemia ha federalizzato l’Ue.
Cioè?
Questa crisi non è dovuta alle responsabilità di un governo o l’altro. È simmetrica, coinvolge tutti, ma ha effetti asimmetrici. Ricorrere esclusivamente a risposte nazionali non ha senso. Il Next generation Eu è una rivoluzione copernicana, di cui la Germania è stata protagonista assoluta.
A Berlino si è sbloccato l’impasse sui fondi europei. Ma i rigoristi continuano a farsi sentire.
È successo molto di più: la Germania ha spezzato lo status quo. Tutto nasce a maggio, con quella sentenza della Corte costituzionale tedesca che dichiara il Quantitative Easing della Bce non compatibile con i Trattati, smentendo la Corte di Giustizia europea. Un intervento a difesa dei risparmiatori tedeschi, che grazie al Qe hanno visto diminuire il rendimento dei loro risparmi. Un conflitto senza precedenti.
Perché?
Perché dietro quella presa di posizione c’è un’idea di Europa, sottoscritta da una parte dell’establishment finanziario, giuridico, politico tedesco: la Germania può stare in Ue, solo se fa i suoi interessi. Una messa in discussione radicale della Germania pensata da Adenauer e Kohl. Per questo Merkel, che di Kohl è allieva, ha scelto di spezzare lo stallo, insieme a Macron. Poi è arrivata la Commissione.
La parabola politica di Merkel sembra al tramonto. Intanto la Cdu si prepara al congresso che ne deciderà la nuova leadership. Quella “rivoluzione” in Ue sarà abbracciata dalla prossima dirigenza?
Molto dipende dai candidati. Quello in pole, e più in continuità, è Armin Laschet, presidente della Renania Settentrionale-Vestfalia. Lui incarna bene quel centrismo dinamico. Una posizione di compromesso. Da un lato sa che se la Germania non alleggerisce le responsabilità della Bce, si troverà a fare i conti con i ricorsi di banche e risparmiatori tedeschi. Dall’altro Laschet cercherebbe di tutelare il partito da un pericolo che ancora incombe: Afd.
Perché è un pericolo?
La Germania, la Cdu non possono permettersi di flirtare con i neofascisti, neanche un attimo. L’ex leader Annegrett Kramp–Karrenbauer (Akk) ci ha provato, è stata licenziata nel giro di una notte. Solo che non sono più una piccola forza. In Prussia e nei land dell’ex Ddr crescono a vista d’occhio.
Il trauma dell’exploit di Afd in Turingia a inizio anno non è ancora stato superato?
No, è una ferita molto aperta. Laschet, moderato e centrista, vuole cicatrizzarla. Per questo guarda altrove. Al dialogo con la Francia di Macron e di Renew Europe. Un anno fa, cinque giorni dopo la lettera agli europei del presidente francese, Akk attaccò duramente la Francia, invitandola a rinunciare al suo seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Una provocazione tipica del conservatorismo radicale tedesco, cui Laschet è estraneo.
Nei giorni scorsi Laschet è stato in Italia per un tour insolito per il galateo istituzionale. Giuseppe Conte, Luigi di Maio, papa Francesco.
Viene in veste di presidente del Land, ma ha già lanciato la campagna elettorale per dicembre. Si sta presentando ai governi europei. Il suo è un programma da presidente della Cdu.
Si sussurra che con Di Maio abbia parlato di un ingresso dei Cinque Stelle nel Partito popolare europeo (Ppe). Fantapolitica?
Non so di cosa abbiano parlato, di sicuro non è fantapolitica. L’Italia ha un partito di governo, i Cinque Stelle, che non è collocato nel Parlamento Ue. Chi non ha un raggruppamento a Bruxelles è condannato all’irrilevanza, non può neanche eleggere i rapporteur nelle commissioni. Sono in un limbo.
Quindi?
Se, come pare, la Cdu si prepara a sostituire i Socialdemocratici con i Verdi nel 2021, si apre un varco per il fronte ambientalista. E potrebbe far gola portare dentro al Ppe un raggruppamento come i Cinque Stelle. Tanto più se si andrà a un confronto duro con Viktor Orban, con la sospensione o l’espulsione dei rappresentanti di Fidesz.
Mi scusi, qui tutti dicono che nel Ppe vuole finirci la Lega…
Quella è un’operazione molto più complicata.
Perché?
Semplice. La Lega è il primo partito del gruppo Identità e democrazia, dove cammina a fianco di Afd. In altre parole, è organicamente legata al maggior rivale della Cdu del tandem Merkel-Laschet.
Quindi il dialogo chiesto da Giorgetti resterà sulla carta?
È sbagliato il tempismo. Giorgetti cita costantemente Orban, che non è una grande citazione, perché ha un piede dentro e uno fuori dal Ppe. Per mandare in porto l’operazione, la Lega dovrebbe parlare con la Csu bavarese, un partito regionale, del territorio. Ma…
Ma?
Non è Matteo Salvini la persona adatta per aprire quel canale. Servirebbe un leader come Luca Zaia. Lui ricorda un po’ la figura del borgomastro bavarese. Gli darebbero ascolto.