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Bene e male nell’assistenzialismo di Stato. L’analisi di Zecchini

Sarebbe saggio che i decisori politici traccino fin d’ora un programma di uscita graduale dalle misure di emergenza e rendano ben chiaro ai beneficiari che sarà applicato quando l’epidemia avrà finito il suo corso. Un simile programma non farà altro che ridurre le incertezze tra gli operatori, li aiuterà a programmare i loro piani e scoraggerà gli opportunisti dall’abusare degli aiuti. L’analisi di Salvatore Zecchini

Nella pioggia di aiuti, finanziamenti e nuove provvidenze disposti dal governo negli ultimi nove mesi fino alla legge di Bilancio per il 2021 è difficile trovare un filo conduttore che sia più importante dell’assistenzialismo di Stato. Sin dal marzo scorso si sono profusi a più ondate sovvenzioni a lavoratori, famiglie ed imprese colpiti dalle restrizioni dovute all’emergenza sanitaria, maggiorazioni nelle spese di bilancio, nei finanziamenti tramite enti controllati e nelle garanzie sui crediti bancari, accompagnandoli con una moratoria sul rimborso dei debiti, sul pagamento dei tributi e sulle procedure esecutive. Da agosto scorso si sono aggiunti nuovi sostegni per promuovere investimenti, ricerca e innovazione, digitalizzazione, istruzione e formazione, tutti fattori indispensabili per ritornare alla crescita economica. La logica sottostante è evidentemente salvare in prima battuta il mondo produttivo e la spesa delle famiglie senza grandi distinzioni e solo in un secondo tempo pensare a innescare una ripresa dell’economia e dei redditi puntando sui fattori su cui si è puntato nell’ultimo quinquennio. Ma l’assistenzialismo era iniziato già nel 2019, in particolare con l’introduzione del reddito di cittadinanza (Rdc) e dell’analoga pensione di cittadinanza (Pdc).

La gravità dell’epidemia e le conseguenti necessità di frenarne la diffusione con limitazioni varie che incidono su libertà personali e attività d’impresa giustificherebbero in via generale tale impostazione della risposta alla crisi. Al contempo, tendono a far perdere di vista alcuni rischi a cui si va incontro in questo assistenzialismo di Stato a causa del suo protrarsi nel tempo e del suo inserirsi in un decennio segnato da aiuti privi di un termine a varie categorie e di finanze pubbliche squilibrate. L’aiuto pubblico è necessario in circostanze come le attuali, ma al suo interno si nascondono alcune trappole in cui è facile cadere e da cui è difficile uscire se non con dolorose manovre e perdite di consensi in alcuni segmenti della popolazione. Molto sottile è la linea di distinzione tra quel che vi è di bene nelle misure di aiuto adottate da quel che vi è di male, ed è facile scivolare in un eccesso dall’uno o dall’altro lato.

Alcuni rischi sono già venuti alla luce quest’anno allorché sono emersi casi di soggetti, tanto famiglie che imprese, che hanno ottenuto sovvenzioni o agevolazioni senza averne diritto o anche, pur avendone diritto, senza averne bisogno (ad esempio, alcune grandi e medio-grandi imprese). Parimenti, alcune categorie e attività meritevoli di sostegno sono state trascurate, o hanno ricevuto un sostegno inferiore al loro fabbisogno, come la rapida digitalizzazione delle scuole e dell’istruzione, il potenziamento della sicurezza nei trasporti pubblici, il tracciamento degli esposti al contagio e il sostegno a lavoratori domestici e badanti che hanno perduto la fonte di reddito. Queste disfunzioni, tuttavia, sono inevitabili quando si devono prendere misure tampone sotto l’incalzare della crisi e vanno sempre messe in conto.

Ben più gravide di conseguenze sono altre forme di sostegno, in particolare la diffusione del Rdc e della Pdc, la garanzia ampliata ed elevata al 90-100% sui crediti alle piccole imprese, e la estensione della semplificazione degli adempimenti amministrativi a vantaggio delle Pmi.

Il reddito di cittadinanza è stato introdotto dal coverno con il duplice scopo di combattere la povertà e di avviare i meno abbienti a un percorso lavorativo utile all’economia e alla società. Il presidente dell’Inps nella sua relazione annuale ne parla come uno strumento di reddito minimo, utile in particolare nell’attuale fase di recessione economica. Il rischio è, nondimeno, di favorire in alcuni strati della popolazione un atteggiamento passivo e di deresponsabilizzazione verso la ricerca del lavoro, una preferenza a contare sulle risorse prelevate dallo Stato dalla parte attiva, che seppure non consistenti assicurano un minimo tenore di vita. Si ha, quindi, un assistenzialismo che guarda solo alla carenza di mezzi da parte di una frazione della popolazione e che non si interroga sulle sue cause, per contrastarle efficacemente. Un assistenzialismo che genera risentimento in chi deve faticare per conquistarsi un reddito decente e perché, per altro verso, può assorbire una parte notevole delle risorse pubbliche distogliendole da impieghi più produttivi. Consapevole di questi rischi, il governo ha cercato di porre alcuni correttivi, ovvero condizionando il beneficio alla manifestazione della disponibilità ad aderire a un percorso di inserimento nel mondo del lavoro e in attività per l’inclusione sociale. Per questo fine è stato rafforzato il ruolo operativo dei centri per l’impiego con l’assunzione temporanea di nuovi addetti.

La condizionalità del beneficio è tuttavia modesta, perché poco cogente, limitata a una frazione dei beneficiari per via dell’esclusione di alcune categorie e dipendente dalla libera volontà dell’individuo di accettare l’offerta di lavoro, o le attività per l’inclusione sociale che gli vengono proposte. La già tenue condizionalità è stata sospesa allo scoppio della crisi in quanto irrealizzabile in un contesto di restrizione diffusa delle attività e dei movimenti, sebbene sarebbe stato utile in questa fase il contributo dei beneficiari allo svolgimento di lavori di utilità sociale. In definitiva, il Rdc è attualmente uno strumento di gratuita assistenza e di scarsa efficienza nel compito di contrastare la povertà.

Lo dimostrano i risultati acquisiti fin dalla sua istituzione. Secondo le rilevazioni dell’Inps e dell’Anpal, a fine ottobre scorso su 3,2 milioni di italiani destinatari del Rdc, corrispondenti a 1,2 milioni di famiglie, solo 1,3 milioni, appartenenti a circa 620 mila nuclei familiari, erano tenuti ad aderire al Patto per il lavoro. Tra questi ultimi, oltre la metà dei beneficiari (52,1%) ha meno di 40 anni e si concentra nel Mezzogiorno (54%). In stragrande maggioranza hanno un basso livello di istruzione (71%), con poche differenze tra Nord e Sud e con un profilo di difficile accesso al mondo del lavoro. Solo un quarto (25,7%) è, infatti, riuscita a entrare in un rapporto di lavoro, che tuttavia per circa due terzi (65%) ha avuto natura temporanea. Di conseguenza, attualmente solo il 14% è impegnato in un contratto di lavoro.

Questi dati inducono a due interrogativi. Primo, superata la crisi sanitaria, il Rdc può considerarsi come strumento idoneo a contrastare la povertà? Quest’ultima categoria si presta a diverse interpretazioni e la definizione adottata per il RdC non corrisponde alle misurazioni effettuate dall’Istat sulla base di indici di povertà assoluta e di quella relativa. Per il 2019 l’Istat stima che 4,6 milioni di italiani versavano in povertà assoluta (7,7% della popolazione) e 8,8 milioni (14,7%) in povertà relativa. Si può, quindi, limitare in vario modo il perimetro della povertà e di fatto altre stime, che usano come metro un reddito pari al 45% della mediana della distribuzione dei redditi equivalenti, inducono a ritenere che la metà dei beneficiari del RdC non sia catalogabile come povero. Il RdC non è servito nemmeno per la funzione di inclusione sociale in quanto i relativi progetti non sono decollati. Pertanto, il RdC si è rivelato soltanto come un nuovo strumento di ridistribuzione del reddito in aggiunta agli altri già applicati, ma in favore di alcune categorie preselezionate ad hoc.

Secondo interrogativo, è necessario ricorrere al meccanismo del RdC per incentivare ed agevolare l’occupazione di giovani forze di lavoro a bassa competenza? È opportuno che le politiche attive del lavoro, da diversi anni invocate da vari governi, si realizzino attraverso il RdC, oppure vi sono meccanismi più efficaci e meno costosi? Se si è costatato da tempo che i Centri per l’Impiego non sono all’altezza del compito nonostante i numerosi interventi e i cosiddetti navigators, mentre i servizi di collocamento gestiti dal privato assolvono meglio la funzione, non sarebbe il caso di ripensare dalle fondamenta come strutturare questi servizi ed avvalersi della collaborazione del privato? Non sarebbe più efficiente ridisegnare la disciplina del lavoro e gli incentivi per dare un’occupazione ai meno occupabili e non premiare i più restii a lavorare?

I rischi dell’assistenzialismo di Stato investono anche la garanzia statale sui prestiti alle Pmi. Per sostenere le Pmi di fronte al crollo della domanda si è innalzata la percentuale di garanzia sui prestiti bancari e si è ampliata la platea dei beneficiari. Di riflesso, il volume di crediti garantiti è quintuplicato in otto mesi e il numero di domande decuplicato. Cosa avverrà quando la crisi sarà superata ed il governo dovrà riportare le condizioni della garanzia al livello pre-Covid, probabilmente tra un anno? Le Pmi si troveranno con un eccesso di indebitamento rispetto al normale e le banche resisteranno sempre più a estendere nuovo credito. Allora le pressioni sul governo per mantenere le stesse condizioni saranno difficilmente resistibili e queste ultime verranno prorogate con oneri rilevanti per il bilancio pubblico.

Analogamente, nei mesi scorsi si sono semplificati ed alleggeriti gli adempimenti amministrativi per le Pmi allargando le disparità di trattamento tra imprese a seconda della loro taglia. Nel dopo-crisi tornare indietro sarà altrettanto difficile e le disparità diverranno strutturali con effetti negativi sulla struttura e robustezza del sistema imprese. Quelli descritti sono solo alcuni degli esempi di rischi che si incontrano nell’assistenzialismo indiscriminato e senza una scadenza, rischi finora trascurati. Sarebbe, invece, saggio che i decisori politici traccino fin d’ora un programma di uscita graduale dalle misure di emergenza e rendano ben chiaro ai beneficiari che sarà applicato quando l’epidemia avrà finito il suo corso. Un simile programma non farà altro che ridurre le incertezze tra gli operatori, li aiuterà a programmare i loro piani e scoraggerà gli opportunisti dall’abusare degli aiuti.


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