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L’Atlantismo conta eccome (con Biden di più). Scrive l’amb. Stefanini

Nel dibattito tra Emmanuel Macron e Annegret Kramp-Karrenbauer sull’autonomia strategica del Vecchio continente c’è anche un altro punto interrogativo: come impatterà la nuova amministrazione Biden? Dalla rivista Airpress, il punto dell’ambasciatore Stefano Stefanini, senior advisor dell’Ispi, già rappresentante d’Italia alla Nato

Il nuovo presidente degli Stati Uniti eredita rapporti sfilacciati con l’Europa. Commercio, cambiamenti climatici, Iran, pandemia, persino sicurezza collettiva: non c’è questione su cui le due sponde dell’Atlantico non si siano allontanate. L’elezione di Joe Biden riapre i giochi. Sarà importante seppellire le asce dei dazi e rilanciare l’accordo di Parigi, ma occorre innanzitutto ritrovare piena solidarietà in materia di difesa e sicurezza. Si può fare solo alla Nato. L’Alleanza esce da quattro anni di terapia intensiva. Ha continuato a fare il suo lavoro in pilota automatico, il che ne dimostra la “resilienza”.

Il cambio di guardia a Washington offre la possibilità di una seconda vita. Dalla presidenza Biden ci si può attendere una forte riaffermazione dei legami con l’Europa nello spirito di solidarietà (“uno per tutti, tutti per uno”) che è l’essenza della Nato. Non più omissioni volontarie dell’articolo 5 che ci hanno fatto rabbrividire. Biden crede nelle alleanze; Trump nel divide et impera. La differenza è tutta lì, ed è enorme.

Per non perdere l’occasione gli europei dovranno fare la loro parte, e subito. Fra quattro anni chissà? Il trumpismo è vivo e vegeto, testimoniato da più di 70 milioni di voti. La sicurezza degli Stati Uniti non dipende più principalmente dalla sicurezza europea, dalla deterrenza della Russia e dalla stabilizzazione di Mediterraneo e Medio Oriente allargato. Gli Usa devono pensare anche alla Cina e al Pacifico. Alla Nato occorrono pertanto una ripartizione più equilibrata di responsabilità e impegni operativi e una visione globale, non regionale, delle sfide internazionali. Due le direzioni di marcia: maggior contributo europeo alle capacità di difesa e alle operazioni nell’arco d’instabilità che si estende dall’Africa all’Afghanistan; regolare la concertazione tra Usa ed europei sulla Cina.

L’uno acquista urgenza e non è più solo questione di spesa, ma di assunzione di responsabilità che alleggerisca gli americani. L’altra apre nuovi orizzonti. Intanto da dove comincerà il nuovo presidente? Aspettiamoci che annulli il ritiro di truppe americane dalla Germania e il loro parziale ridispiegamento in Polonia. Piccolo gesto che però riafferma che gli Usa mantengono l’impegno militare in Europa come garanzia di difesa per tutti gli alleati, non per alcuni più di altri. La solidarietà non si bilateralizza; rimane collettiva.

L’inaugurazione di Fort Trump in Polonia è rinviata sine die; a Varsavia rimane l’assicurazione Nato. Secondo segnale immediato di discontinuità: concertazione con gli alleati su Afghanistan e Iraq, dove la Nato ha in corso missioni di addestramento (con significativa partecipazione italiana), anziché metterli di fronte al fatto compiuto con tweet estemporanei (in realtà, in entrambi i casi, interveniva poi la resistenza passiva del Pentagono). Continuità invece sul fronte dei bilanci militari: la nuova amministrazione ribadirà la richiesta che gli alleati onorino l’impegno di spendere il 2% del Pil per la difesa; con toni diversi, ma senza sconti, lo avevamo già appreso con Obama.

Idem (continuità) nella deterrenza alla Russia, per quanto l’estensione del trattato New start affinché mantenga il congelamento dei missili intercontinentali a testata nucleare potrà rasserenare l’atmosfera. Idem nella “Nato a 360 gradi”, che significa impegno inalterato sul fronte sud, importante per l’Italia. Guardando poi al futuro della Nato, Biden deve affrontare due sfide. La prima è quella dell’unità degli alleati. L’incrinatura principale è rappresentata dalle molteplici dissonanze della Turchia, dagli S-400 russi alla Libia, dal Mediterraneo orientale al conflitto azero-armeno. Ma non è l’unica. E con Brexit nuove frizioni possono nascere fra britannici ed europei (fronte Ue). Solo gli americani possono fare opera di ricomposizione di queste faglie, per quanto l’amministrazione Trump non lo abbia saputo o voluto fare (lacuna macroscopica). Biden porrà poi la Cina sul tavolo della Nato.

Se Pechino, non Mosca, è la rivale globale, l’Alleanza non può disinteressarsene, altrimenti gli americani si disinteresseranno della Nato, chiunque sia il presidente. Anche se la Cina non pone una minaccia militare diretta allo spazio transatlantico, la sicurezza collettiva non è definita dalla geografia. Inoltre, l’Alleanza ha ormai riconosciuto due domini militari di dimensione globale: spazio extra-atmosferico e cyber, e Pechino è agguerrita in entrambi. Per motivi diversi molti europei non vogliono una Nato anti-Cina, traccheggiano. La nuova amministrazione cercherà di metterli con le spalle al muro: se non vogliono sentirsi abbandonati dall’Atlantico (ricordiamo il grido di dolore suscitato dal “pivot to Asia” di Obama) devono aiutare sul Pacifico.

Il rilancio atlantico passa dunque per Pechino. La Cina sarà sul tavolo dei rapporti UsaUe e, per la dimensione politico-militare, su quello Nato, alla quale Biden non chiederà un impegno militare diretto, ma una concertazione delle politiche e uno sforzo indiretto: se gli europei sono pronti a fare di più nel proprio vicinato, libereranno risorse americane per il Pacifico. Questi potrebbero essere i termini del nuovo contratto fra nord America (non dimentichiamo il Canada) ed Europa



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