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Golfo, Turchia, Nordafrica. Gli Usa di Biden secondo Fasanotti (Brookings)

Che presidenza sarà quella del democratico Biden in aree strategiche come Nordafrica, Mediterraneo, Golfo? Rapporti con Riad, Abu Dhabi, Ankara e dossier chiave come la Libia analizzati con Federica Saini Fasanotti (Brookings)

Manca ormai solo l’annuncio formale alla vittoria di Joe Biden di Usa2020, e Formiche.net prova già a delineare a caldissimo alcuni elementi che potrebbero caratterizzare la futura presidenza del democratico. Per farlo abbiamo parlato con Federica Saini Fasanotti, Foreign Policy Program della Brookings Institutions, il più importante think tank del mondo (da cui, secondo indiscrezioni circolate sulla stampa statunitense, Biden dovrebbe pescare diversi esperti per riempire le caselle dei ruoli nella sua amministrazione).

“Partiamo da un punto: Biden – spiega Fasanotti – ha una capacità di gestire la politica estera indubbia. Ha fatto due mandati come vicepresidente ed è stato prima presidente della Commissione Esteri del Senato. Immagino che migliorerà i termini di relazioni internazionali a favore degli interessi occidentali”.

Per l’esperta della Brookings un altro elemento certo è che la presidenza del democratico ex Vp di Barack Obama sarà caratterizzata dalla presenza di figure altamente qualificate. Fasanotti prende a paradigma la Libia, su cui ha pubblicato molte analisi e diversi testi (l’ultimo, “Vincere: The Italian Royal Army’s Counterinsurgency Operations in Africa“, porta la firma in prefazione di John Allen, generale, stratega militare tra i più famosi della sua generazione, presidente della Brookings).

L’esempio funziona, perché durante l’amministrazione Trump in Libia sono state condotte due linee. Una tenuta dal presidente Donald Trump, che ha rivolto attenzione al generale/presidente Abdel Fattah al Sisi e al suo uomo sul campo, il signore della guerra della Cirenaica, Khalifa Haftar, anche per seguire una continuità di posizioni con gli Emirati Arabi. L’altra ben più classica, gestita da Pentagono e Dipartimento di Stato. Secondo Fasanotti, questa gestione più “tecnica ed esperta del dossier libico la rivedremo su altri fascicoli”, in generale su tutto il Maghreb, dove negli ultimi anni gli Stati Uniti sono sembrati “missing in action“.

“Però – spiega –impossibile pensare nel breve tempo a dei grossi cambiamenti. Ricordiamo che Biden della Libia non ha mai parlato in campagna elettorale” e il dossier è simbolo della situazione in tutta la regione nordafricana, e Biden praticamente non ha mai appoggiato la decisione di Obama di intervenire in Libia nel 2011.

Secondo Fasanotti, nel momento in cui Biden entrerà nello Studio Ovale si troverà davanti importanti dossier di politica interna: quali? “Innanzitutto il Covid (che negli ultimi giorni fa segnare record di nuovi contati e decessi), poi la crisi economica e l’instabilità sociale, fattori anche collegabili e molto importanti; infine la questione climatica”. Ieri Biden ha twittato: “Oggi l’amministrazione Trump lascia ufficialmente l’accordo di Parigi. Ed esattamente in 77 giorni l’amministrazione Biden vi riprenderà parte”.

È la conferma di quanto dice Fasanotti rispetto all’interesse su certi temi, che quindi distrarranno – almeno parzialmente e nelle prime fasi – l’amministrazione dalla politica estera? “Immagino, come detto, che si circonderà di grandi professionisti in grado di gestire i diversi dossier, e questo (che favorirà il merito e l’esperienza) lo terrà agganciato a molti scacchieri, però credo onestamente che la concentrazione sulla politica estera almeno nel primo biennio non sarà particolarmente alta”.

Alcuni passaggi più sicuri, riguardano – secondo l’esperta della Brookings – cose come il rinvigorimento di Africom: “Il comando Africa del Pentagono è stato ridotto al minimo, e invece una presenza fisica nel continente è fondamentale sia per presenza e capacità di attivazione, sia per questioni di intelligence e relazioni”.

Inoltre, aggiunge, “sicuramente Biden non è uno che apprezza i dittatori: quindi i comportamenti prepotenti come quelli del presidente turco, Recep Tayyp Erdogan, nel Mediterraneo non saranno troppo tollerati. A differenza di quanto fatto da Trump, che sostanzialmente ha lasciato mani libere ad Ankara, tranne qualche colpo di coda nell’ultimo periodo legato alle tensioni nel Mediterraneo Orientale”. Possibile che le pressioni su Erdogan riguardino anche l’avvicinamento ai russi, che invece Trump, molto più aperto della posizione del democratico nei confronti di Vladimir Putin, non aveva troppo osteggiato.

“Il Mediterraneo è uno scacchiere fondamentale per la politica estera americana, ed è impensabile che Biden stia zitto davanti alle ambizioni di espansione turche”, spiega Fasanotti. Quello che sarà interessante è comprendere anche come saranno le relazioni con il mondo del Golfo: ormai non si può parlare di Arabia Saudita o Emirati Arabi, alleati attorno a cui Trump ha legato la sua presenza nella regione mediorientale, senza parlare di Turchia.

In mezzo si muove la faglia intra-sunnita, che vede da un lato l’Islam politico della Fratellanza musulmana, e dall’altro la conservazione dello status quo che vogliono le monarchie del Golfo. Espressioni di questo scontro profondo si sono viste in Libia, ma anche nei posizionamenti riguardo alle dinamiche nel Mediterraneo orientale, con gli emiratini e gli egiziani allineati in un blocco di paesi nemici della Turchia.

La situazione è stata tirata in ballo oggi dal leader della Fratellanza musulmana libica, Imad al-Din Zuhri al-Muntasir, che ha dichiarato che non ci saranno troppi cambiamenti nella politica estera statunitense, soprattutto nei confronti della Fratellanza – ma è chiaro che questa potrebbe essere una dichiarazione provocatoria.

C’entrano le relazioni col Golfo, indubbiamente. “Credo che a differenza di quanto visto con Trump, che aveva provato a gestire le relazioni col Golfo, soprattutto con Riad e Abu Dhabi in forma diretta (o al più con l’assistenza di Jared Kushner, il genero che ha rapporti con gli eredi al trono locali), ci sia un ritorno di gestione in mano ai tecnici, ossia a Pentagono, dipartimento di Stato, intelligence e Congresso. Priorità assoluta poi avranno gli accordi sul nucleare, e la relazione tormentata con l’Iran”.

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