Altro che ristori, il piano Next Generation Eu rappresenta un’opportunità senza precedenti per realizzare, grazie al sostegno finanziario europeo, un programma massiccio di investimenti pubblici e privati che rilanci la competitività del sistema produttivo italiano nella fase di ripresa dell’economia post-pandemia
La parola d’ordine è “ristoro”. In nome di questo prioritario obiettivo si votano, all’unanimità, gli scostamenti di bilancio che vanno ad aggiungersi a quelli precedenti, accumulando indebitamento e debito. Ed è una corsa alla sopravvivenza, a sottrarsi ad un virus malefico che colpisce in misura prevalente gli ultraottantenni sofferenti – secondo le statistiche – di almeno altre tre gravi patologie; e se qualcuno, magari con toni un po’ sgarbati come il giovane consigliere comunale pavese Niccolò Fraschini, si azzarda a far notare che il conto dei funerali lo pagheranno diverse generazioni di giovani, viene, come il ragioniere Ugo Fantozzi, crocefisso in Sala Mensa.
Vox clamantis in deserto, il Centro Studi della Confindustria, negli Scenari presentati il 28 novembre, non può che prendere atto di questa propensione al primum vivere senza produrre né lavorare, allo scopo di mitigare la diffusione del contagio, riuscendoci solo parzialmente con costi economici enormi.
“Con l’esplodere della pandemia – è scritto nel Rapporto – l’esigenza, attraverso misure (discutibili a parere di chi scrive) volte a sostenere i redditi, prima ancora che la produzione, ha radicalmente mutato l’ordine delle priorità, accrescendo verticalmente la “domanda di regolazione” e spingendo i governi nazionali – e addirittura l’Unione europea – verso politiche improvvisamente interventiste, senza tuttavia che maturasse una riflessione adeguata e completa sulle strategie industriali di medio e lungo termine: il che comporta una perdurante carenza di visione della politica economica, e il suo procedere a passi brevi secondo le pressioni del momento.
Per le stesse ragioni è immaginabile che il grado di inerzia del nuovo orientamento possa risultare modesto: e che a emergenza finita – al di là della misura e dello stesso significato politico della nascita di uno strumento importante come il Next Generation Eu – la logica della politica economica possa essere nuovamente chiamata a cambiare, lasciando per così dire a mezz’aria strategie messe in campo senza definire preliminarmente un percorso da seguire coerentemente nel tempo’’.
L’immagine delle strategie ‘’lasciate a mezz’aria’’ è molto ficcante se consideriamo il ritardo con cui il nostro Paese si sta attrezzando a raccogliere le sfide dell’innovazione e delle resilienza che provengono – non senza difficoltà sopravvenute – dall’Unione. In questo quadro la manifattura italiana sta sperimentando – secondo il Csc – una riduzione del numero di imprese (nel corso dell’ultimo ventennio ne sono uscite dal mercato oltre 240mila, a fronte di poco più di 94mila ingressi) e un aumento di eterogeneità (dal punto di vista dei presupposti per competere). Il fenomeno è l’effetto di due shock successivi: la globalizzazione (che ha manifestato i suoi effetti su un arco temporale molto lungo) e la crisi finanziaria (esplosa nel 2008).
La pandemia rappresenta dunque un terzo shock che si aggiunge e sovrappone i suoi effetti a quelli già in atto. Ciascuno di questi fenomeni agisce in modo diverso dall’altro, ma comunque alzando ogni volta l’asticella per gli operatori e determinando ogni volta un incremento delle uscite. L’impatto della pandemia sui livelli di attività della manifattura è stato immediato e violento.
Nei due mesi di lockdown (marzo e aprile) la produzione è diminuita di oltre il 40%. Il recupero dei livelli produttivi da maggio è stato pressoché istantaneo, così che nel giro di quattro mesi il livello di produzione è tornato intorno ai valori di gennaio. Ma le prospettive per i mesi autunnali sono tornate negative, in linea con l’aumento dei contagi a livello globale e con l’introduzione di nuove misure volte a limitare la diffusione del virus.
Dal punto di vista dell’occupazione la drammatica caduta dell’output manifatturiero è stata quasi interamente assorbita dalla riduzione del monte-ore lavorate (-23%), a fronte della sostanziale tenuta del numero degli occupati complessivi (-0,6%). A fare da cuscinetto alla perdita di posti di lavoro è stata un’ampia gamma di forme di riduzione dell’orario, con limitati oneri aggiuntivi per le imprese.
Oltre allo smaltimento delle ferie e all’utilizzo di congedi, è stato cruciale il ricorso rapido e massiccio a strumenti di integrazione al reddito da lavoro, in primis la cig, che il governo ha messo a disposizione in deroga. Ma, naturalmente, ha contato anche il blocco dei licenziamenti, anche nel confronto internazionale.
La dinamica occupazionale appare fortemente eterogenea a livello territoriale. Nel corso dell’intero periodo post-crisi il Paese appare letteralmente diviso in due: da un lato il Nord (occidentale e orientale), sempre al di sopra della media nazionale, e dall’altro il Centro-Sud, sempre al di sotto.
Mentre nelle prime due aree – e in particolare nel Nord-ovest – i livelli dell’occupazione recuperano alla fine dell’ultimo decennio quasi tutto quello che era stato perduto nei primi anni, nelle altre due il recupero è pressoché assente, e il divario rispetto al Nord resta evidente. Cambia anche la struttura dell’occupazione.
Nell’industria in senso stretto risultano ancora in calo le donne (che già nel 2008 rappresentavano solo il 27,6% della manodopera e nel 2019 scendono al 25,5%); i lavoratori più giovani (al di sotto dei 35 anni); la componente autonoma dell’occupazione (la quota degli indipendenti scende ininterrottamente dal 13,9 al 10,1%).
Continuano invece a crescere i lavoratori di origine straniera, che hanno raggiunto nel 2019 il 9,9% dell’occupazione del settore (circa 466mila occupati) e – nell’ambito dell’occupazione alle dipendenze – aumentano l’incidenza dei contratti a tempo determinato (dal 9,5% del 2008 al 12,7% del 2019) e la diffusione di regimi orari ridotti (il part-time passa dal 6,6 all’8,4%), spesso utilizzati per rendere compatibili la necessità di ridurre le ore lavorate con il mantenimento dei livelli occupazionali.
Il piano Next Generation Eu rappresenta un’opportunità senza precedenti per realizzare, grazie al sostegno finanziario europeo, un programma massiccio di investimenti pubblici e privati che rilanci la competitività del sistema produttivo italiano nella fase di ripresa dell’economia post-pandemia e che rafforzi le fondamenta della sua sostenibilità negli anni a venire, consentendogli di intercettare le traiettorie di sviluppo intorno alle quali si vanno definendo le nuove catene del valore europee e globali.
Dopo aver ricordato le dimensioni dell’intervento di carattere finanziario e quanto è riservato all’Italia nella ripartizione, il Rapporto sottolinea che è molto alto il rischio che l’Italia non riesca a sfruttare pienamente questa opportunità, stanti i cronici problemi che affliggono le Pubbliche amministrazioni (centrali e regionali) nell’avviare e portare a termine i progetti finanziati con fondi comunitari. Ecco perché, secondo il Csc di Confindustria, sarebbe auspicabile che gli obiettivi generali fissati nel Next Generation Eu – che si declineranno a livello italiano nel Piano nazionale di ripresa e resilienza – fossero perseguiti individuando pochi, grandi progetti di filiera, integrati su snodi strategici per lo sviluppo del Paese, coerenti con le altre politiche di sviluppo nazionali e comunitarie già definite o in via di definizione, e con una governance e una strumentazione di policy unitaria a livello nazionale.
Il modello potrebbe essere quello degli Important Projects of Common European Interest (ipcei), orientati all’identificazione di catene del valore strategiche nell’ambito europeo, che a partire da un obiettivo di policy specifico individuano tutti gli snodi tecnologici rilevanti per il suo conseguimento, e intorno ad essi costruiscono partenariati industriali in una logica di cofinanziamento pubblico-privato.