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Covid-19, la lezione degli Emirati Arabi

Ristoranti, alberghi e scuole aperte nel Paese del Golfo, che vanta una mortalità inferiore allo 0,4% e guarda con ottimismo ai risultati della fase 3 della sperimentazione vaccinale, appena conclusa

Abu Dhabi – Nelle ore in cui questo articolo viene pubblicato, i numeri ufficiali diffusi dal governo degli Emirati Arabi Uniti, su una popolazione di circa 10 milioni di persone (un sesto dell’Italia), descrivono 142mila casi totali, 137mila guariti e appena 514 morti da inizio pandemia, equivalente a meno dello 0,4% della popolazione contagiata. I ristoranti, gli alberghi, le spiagge e addirittura i cinema sono aperti e funzionano a pieno ritmo. Dall’inizio dell’anno scolastico gli studenti sono tornati progressivamente in aula e proprio in queste ore il governo ha annunciato che da gennaio riprenderanno le lezioni a scuola per tutti.

Insomma, vista da qui, l’Europa appare distante. E se non fosse per la rigida osservanza delle norme comportamentali imposte dal Covid, la vita negli Emirati Arabi Uniti, federazione di sette monarchie, sembrerebbe tornata alla normalità. Eppure dalla mascherina, al distanziamento, dall’ossessiva sanificazione degli spazi comuni, alla mobilità ridotta al minimo, il controllo e l’autocontrollo sono molto forti. Basti pensare che il ricchissimo emirato di Abu Dhabi, là dove si annida oltre il 90% delle riserve petrolifere del Paese, è quasi una fortezza inespugnabile in cui, ad oggi, è possibile entrare dagli Emirati vicini solo superando tre test successivi e addirittura osservando una quarantena di due settimane con tanto di braccialetto elettronico al polso, se atterrati dall’estero. La multa può superare i 700 euro per chi non indossa la mascherina nei luoghi pubblici e può andare oltre i diecimila euro per chi non rispetta la quarantena domestica.

Quando si tratta di sfide mondiali, gli Emirati fanno di tutto per vincere. Come nella tempestività dello screening e della prevenzione: con oltre 14 milioni di test, sono il primo paese al mondo ad aver eseguito più tamponi del numero di abitanti, al fine di identificare e isolare, con effetto immediato, le persone contagiate. Ma le ambizioni più grandi sono affidate al vaccino cinese, frutto dell’accordo di cooperazione clinica tra il colosso farmaceutico cinese Sinopharm China National Biotec Group (Cnbg) e la società emiratina G42. Il webinar “Covid-19: where do we stand with tracing, therapy and vaccine?” realizzato dall’Ambasciata d’Italia negli Eau è stato l’occasione per un ultimo aggiornamento sul trial vaccin fase III del Sars-Cv2 inattivo appena conclusa. Uno tra i sette dello stesso genere in corso al mondo.

La dottoressa Nawal Al Kaabi, presidente del Comitato di controllo delle infezioni dell’autorità sanitaria di Abu Dhabi, ha detto che sono circa 31mila i volontari residenti (oltre il doppio delle cifre ipotizzate inizialmente sulla stampa) che in sole sei settimane hanno aderito all’invito diramato dalle autorità tramite il tam tam mediatico. La vaccinazione, condotta secondo le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità e della Food and Drug Administration, ha previsto somministrazioni randomiche, placebo, e doppio cieco (sia i medici che i pazienti non sanno se stiano davvero somministrando o ricevendo il vaccino).

La doppia dose, da assumere a distanza di 21 giorni, prevede un monitoraggio annuale degli effetti collaterali, risultati lievi sin ad ora, mentre tutti i volontari di fase I e II hanno già sviluppato anticorpi. Ad aumentare l’interesse clinico dell’esperimento anche il fatto che la sperimentazione ha coinvolto al 67% una popolazione di espatriati di oltre 200 nazionalità diverse, ovviamente anche europee, riflesso della multietnica società emiratina.

Certo è presto per definire l’efficacia immunogenica del prodotto e quando ipotizzare la disponibilità del vaccino su larga scala per usi commerciali, eppure è ritenuto inoffensivo al punto che dal 14 settembre scorso è già somministrato ai lavoratori front line volontari, quali medici, infermieri, poliziotti, hostess, piloti e insegnanti delle scuole pubbliche.

In questi giorni, il direttore generale della National Emergency Crisis and Disasters Management Authority, Obaid Rashid Al Shamsi, ha affermato che gli Emirati Arabi Uniti costituiscono un “modello globale pionieristico nella risposta alla pandemia”. Parole cariche di suggestione. È davvero possibile esportare questo modello, soprattutto là dove cambiano profondamente i fondamentali economici, la forma di governo, il quadro demografico, la sensibilità collettiva nei confronti dell’autorità o il grado di tolleranza rispetto alla limitazione temporanea della libertà personale? Di certo la lettura dei fatti suggerisce che esista quanto meno un particolare “metodo”, adottato dagli Emirati, che vale la pena osservare con attenzione. Non assomiglia né ai lockdown draconiani della prima emergenza né ai comportamenti scomposti frutto della “Covid fatigue”, registrati dalle cronache internazionali. Tra autoritarismo sanzionatorio e flessibilità strategica, tra infaticabile depistaggio del virus e rigido isolamento dei singoli contagi, ad oggi gli Emirati resistono con forza allo tsunami Covid e sembrano scongiurare, quanto meno a breve, ulteriori lockdown e coprifuochi. L’ottimismo e la fiducia con cui la popolazione abbraccia la retorica di un prossimo trionfo sul virus, magari proprio nel 2021, cinquantesimo anniversario della nazione, sono palpabili. Se gli Emirati davvero taglieranno il traguardo del vaccino, forse, in parte sarà anche merito di questa fiducia e capacità di affidarsi, corali e collettive, per quanto possano apparire lontane, se osservate dall’Europa.

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