Skip to main content

Da Putin a Macron, così (non) si ferma l’Islam radicale

Nella giusta condanna senza appello del radicalismo islamico, Macron ha scontato un eccessivo protagonismo emotivo, forse per risollevare una popolarità personale messa a dura prova per il Covid. Dalla Russia di Vladimir Putin, che conosce non da ieri il terrorismo jihadista, arriva un monito sulla difesa della laicità di Stato. L’analisi di Igor Pellicciari, professore di Storia delle Relazioni internazionali alla Luiss e all’Università di Urbino

Viene immediato, dopo gli attacchi dei giorni scorsi in Francia, pensare al difficile rapporto tra laicismo dello Stato e libertà religiosa. Più difficile è buttare su carta un commento analitico a freddo, esercizio che si espone al rischio di estrapolazione strumentale di singole frasi in un momento in cui a farla da padrone è la condanna “senza se-e-senza ma” della violenza. Come è giusto che sia. Eppure vi è lo spazio per fare alcune considerazioni in aggiunta (non in contrapposizione) al molto che si sta già scrivendo in questi giorni.

Originario di un paese europeo (la Bosnia ed Erzegovina) a maggioranza di fede islamica, chi scrive ha passato gran parte degli ultimi due decenni tra il Regno di Giordania e la Federazione russa, due paesi dove la sua confessione cristiano-cattolica è in chiara minoranza. E dove tuttavia la questione del rapporto tra Stato e religione – pur con percorsi diversi – ha trovato un punto di equilibrio su cui conviene riflettere. Non necessariamente in forma prescrittiva.

Il caso giordano, nelle sue stesse premesse, è opposto a quello secolare francese.

L’islam è religione di Stato e il nome stesso del Paese si richiama alla famiglia reale hashemita, storicamente sunnita (il sovrano è in discendenza diretta con il profeta Maometto).  Tuttavia, le restanti religioni – e in particolare quella cristiana, che nel Medio Oriente affonda le sue stesse origini – sono costituzionalmente garantite e protette, di nome e di fatto.

Va da sé che in questo contesto, la libertà religiosa è superiore alla libertà di pensiero alla francese, che in nome di una assoluta laicità dello Stato, non accetta alcun limite né formale né – soprattutto – consuetudinario (come invece avviene in Italia).

Vivendo ad Amman, tuttavia, l’europeo scopre molto presto alcuni dei fraintendimenti più comuni sull’Islam che attentati come quello di Nizza rafforzano.

Il principale è la impropria sovrapposizione tra integralismo e fondamentalismo-radicale islamico; due termini troppo spesso usati come sinonimi ma che si rifanno a realtà profondamente diverse. Anzi, spesso opposte.

L’integralista vive senza eccezioni secondo i rigidi precetti dettati da una religione che egli conosce a fondo e che lo istruisce nel dettaglio ad essere sempre una persona modello sia nel privato che nel pubblico, timorata di un Dio onnipresente cui si affida con assoluta fede e fiducia.

Secondo questa visione, l’infedele non è un fedele di un’altra religione, tantomeno quella cristiana (in Gesù l’Islam riconosce uno dei suoi profeti) ma colui che – letteralmente – non ha fede in nessun Dio e non abbraccia alcuna religione.

Poiché la violenza non è tollerata e viene anzi deprecata dai precetti di comportamento individuale, l’integralista considera un grave affronto a Dio decidere l’uso della forza di propria iniziativa, peccato gravissimo da cui non può redimersi.

Questo integralismo islamico mal si concilia con i fenomeni di auto-radicalizzazione che seguono la quasi totalità degli attentatori che hanno agito nei recenti anni in Europa – e soprattutto in Francia. In genere, si tratta di giovani quando non giovanissimi disadattati con un passato di micro-criminalità, scarsa educazione (soprattutto religiosa), pieni di un astio e di un odio di rivalsa che ne scatena una violenza cieca e gotica. Essi vengono unanimemente additati dagli stessi integralisti con l’epiteto dispregiativo di khawarij (reietti).

Nell’elevarli al rango di “terroristi teologici”, il mainstream in realtà li carica di un eccessivo disegno politico e finisce spesso involontariamente per esaltarli come eroi negativi e favorire episodi di emulazione, a loro volta scollegati da una strategia organica o un disegno teologico a monte.

Essere associati direttamente a questi gesti radicali violenti è per gli integralisti islamici spesso fonte di una frustrazione che si somma a quella dell’affronto di vedere offesa – per di più in nome della laicità di uno Stato straniero – la propria religione che essi antepongono a tutto.

Il caso russo è invece interessante perché più comparabile con la Francia, per i numerosi legami storici e le similitudini istituzionali tra i due paesi. Al pari di Parigi, Mosca è improntata a un forte statalismo, cementificato da un modello culturale unitario diffuso su tutto il territorio nazionale e da un sistema amministrativo centralista che fa capo alla figura di un presidente carismatico.

Al pari della Francia, in Russia lo Stato nella sua laicità non è soltanto separato dalle religioni ma è loro costituzionalmente superiore. Circostanza che in passato ha creato non pochi problemi al Cremlino, soprattutto – durante i conflitti in Cecenia – con l’ampia componente musulmana del Paese (più di 15 milioni di fedeli, in larga maggioranza sunniti).

Eppure, non senza difficoltà (la Russia ha subito numerosi eclatanti attentati di matrice fondamentalista), il Cremlino ha cercato negli anni con pragmatismo di tenere separata la guerra al terrorismo dal tentativo di integrare la comunità musulmana nella Federazione.

Pur essendo lo Statalismo russo forte come quello francese, esso si è dato il ruolo di “tutore” attivo delle diverse confessioni presenti nel paese. Applicando un paternalismo laico che arriva a difenderle e promuoverne lo sviluppo con specifiche politiche e azioni eclatanti (nel 2015 Recep Tayyip Erdogan presenziò in Russia alla inaugurazione della più grande moschea europea voluta da Vladimir Putin).

Nei rapporti con l’Islam, questo approccio (Dmitrij Peskov ha dichiarato che in Russia vignette come quelle di Charlie Hebdo non verrebbero tollerate) ha portato ampi benefici al Cremlino. Sul piano interno, con la normalizzazione dei rapporti con la Cecenia (il presidente Ramzan Kadyrov – tra i più critici verso Emmanuel Macron – è oggi uno degli alleati più stretti di Putin) e con il depotenziamento delle spinte secessioniste del Tatarstan.

Sul piano internazionale, con un posizionamento efficace con Turchia, Iran e Arabia Saudita – che ha contribuito al raggiungimento degli obiettivi russi nella campagna di Siria (che, per inciso, non ha portato ad un significativo incremento del terrorismo fondamentalista-radicale sul suolo russo).

Il tutto, si badi, è avvenuto senza che Putin sia stato accusato di avere svenduto i principi dello statalismo laico Russo o indebolito il cristianesimo ortodosso (prima religione del paese) a vantaggio dell’islam.

Alla luce di queste considerazioni quanto avvenuto politicamente nei giorni scorsi lascia perplesso l’analista per l’eccessivo protagonismo emotivo di Macron che è sembrato cercare di risollevare, sull’onda del giusto sdegno per gli (ennesimi) tragici attentati di singoli auto-radicalizzati in Francia, una popolarità personale messa a dura prova dalla seconda ondata del Covid.

L’intervista concessa in un secondo momento dal presidente francese ad Al Jazeera, sembra voler essere un passo riparatore per abbassare i toni di uno scontro con l’Islam politico che egli stesso per primo ha incautamente – e forse inconsapevolmente – alzato di livello, prestando il fianco alle parole incendiarie del Presidente turco.  La cui tattica strumentale nella competizione con Parigi (dalla Libia al Libano) è oramai nota da tempo. E, quindi, avrebbe dovuto essere prevista e prevenuta.


×

Iscriviti alla newsletter