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Vi spiego l’asse Turchia-Qatar dal Caucaso alla Libia

Con l’America distratta dagli esiti paradossali delle elezioni presidenziali e l’Europa prostrata dagli effetti sanitari, economici e sociali della pandemia da coronavirus non stupiscono le azioni degli avventurieri della politica internazionale, Erdogan e Al Thany. L’analisi di Giancarlo Elia Valori

“La Turchia intrattiene profondi legami di amicizia e fraternità con il Qatar e le relazioni tra i due Paesi sono rapidamente migliorate in tutti i campi… Ambedue le nazioni cooperano attivamente nella soluzione delle problematiche regionali”.

Con queste parole il sito ufficiale del ministero degli Esteri turco descrive sinteticamente lo status dei rapporti tra Doha e Ankara, rapporti che hanno influenzato e continueranno a influenzare profondamente l’evoluzione (o l’involuzione) delle relazioni internazionali in un ampio scacchiere che travalica i confini classici del Medio Oriente geopolitico ma va dalla Libia al Caucaso, passando per Cipro e per il Mediterraneo orientale.

“Amici dei giorni difficili”: così si autodefiniscono il presidente turco, Tayyp Recep Erdogan, e l’emiro del Qatar, il quarantenne spregiudicato Tamin bin Hamad Al Thani.

In effetti debbono essere buoni amici, visto che il presidente turco ha accettato, nel 2018, senza battere ciglio il dono “personale” di un jet privato del valore di 400 milioni di dollari generosamente fornito dal suo giovane e ricchissimo alleato, con il quale ha intrattenuto nell’ultimo decennio rapporti strettissimi, con incontri vis a vis a cadenza mensile se non settimanale.

La liason tra Turchia e Qatar ha due date di riferimento ben precise: il dicembre 2010 e il giugno 2017.
Dopo i primi e contenuti disordini scoppiati in Tunisia sull’onda di proteste contro il carovita e per una maggiore democrazia, grazie anche alla sofisticata e martellante strategia informativa (e disinformativa) dell’emittente televisiva Al Jazeera, di proprietà dell’emiro del Qatar, le proteste si diffondono rapidamente in Libia, Egitto e Siria producendo sconvolgimenti che durano ancora oggi.

Nasce grazie ad Al Jazeera, e alla miopia politica e superficialità analitica del Dipartimento di Stato americano allora retto dalla vestale del politically correct, Hillary Clinton, il mito della ”Primavera Araba”.
È Al Jazeera che infiamma le piazze e le menti di tutto il mondo arabo e mussulmano chiamando alla rivolta contro i “despoti” e instilla in occidente e nel mainstream mediatico euro-americano l’idea che dietro alle rivolte vi sia una genuina richiesta di democrazia.

Che le cose non stessero come le dipingeva l’emittente del Qatar, lo abbiamo (faticosamente) capito dopo un decennio di scontri sanguinosi, guerre civili e golpe autoritari, tutti eventi che hanno dimostrato che la “Primavera Araba” altro non era che il tentativo della parte più retriva dell’Islam, quella raccolta intorno ai “Fratelli Mussulmani” di assumere finalmente il potere abbattendo regimi secolari più o meno autoritari, e di rimpiazzarli con governi fondati esclusivamente sulla Sharia, la legge islamica basata sulla più rigida osservanza dei precetti del Corano.

È in questo contesto che nasce e si rafforza la special liaison tra Erdogan e Al Thani: ambedue si resero conto che se fossero riusciti ad assumere la guida politica dei “Fratelli Mussulmani”, invisi ai governi arabi più moderati del Golfo Persico, avrebbero potuto diventare i nuovi protagonisti della geopolitica medio orientale.

È questa prospettiva che porta Turchia e Qatar ad appoggiare nel 2012 l’effimera ascesa del “fratello mussulmano” Mohammed Al Morsi alla presidenza dell’Egitto e a intervenire pesantemente nella crisi siriana, con aiuti economici, militari e sostegno propagandistico (sempre con Al Jazeera all’opera) nei confronti delle forze ribelli al regime di Assad che rapidamente vengono egemonizzate dai miliziani jihadisti siriani di Jabat Al Nusra e dai tagliagole iracheni dell’Isis del “califfo” Al Baghdadi.

Turchia e Qatar scommettono sulla caduta di Assad e sulla trasformazione della Siria in una repubblica islamica che sostenga il nuovo ruolo egemonico di Ankara nella regione puntellato finanziariamente dal ricchissimo Qatar, uno stato che con i suoi 300.000 abitanti non riesce a emergere nel confronto con la forza egemone del Golfo, l’Arabia Saudita.

Le cose non vanno come auspicato dai due “amici dei tempi difficili”: in Egitto i sogni di Morsi e della “Fratellanza” si infrangono, nel 2013, di fronte alla reazione dei militari guidati dal generale Al Sisi, mentre in Siria grazie all’intervento russo, Assad “regna” ancora anche se soltanto sulle rovine di un paese distrutto da un’insensata e feroce guerra civile che ha provocato centinaia di migliaia di morti tra i civili e la fuga di oltre un milione di profughi.

Il ruolo di Turchia e Qatar nelle turbolenze mediorientali e le velleità dei due alleati di primeggiare nello scacchiere più delicato del pianeta, ci portano alla seconda data significativa nei rapporti tra Erdogan e Al Thani: il 5 giugno 2017, giorno in cui Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto rompono le relazioni diplomatiche con il Qatar e pochi giorni dopo trasmettono a Doha un durissimo ultimatum imponendo, pena durissime sanzioni, la rottura delle relazioni con la “Fratellanza Mussulmana”, la riduzione ai minimi termini dei rapporti con l’Iran e la chiusura della base militare di Tariq Bin Ziyad occupata dal 2014 da un contingente di forze armate turche.

Per rafforzare le pressioni, Arabia Saudita ed Emirati inviano truppe alla frontiera con il Qatar, interrompono voli e comunicazioni terrestri mentre, per decisione del parlamento di Ankara, il contingente turco viene ulteriormente rafforzato.

Le sanzioni contro il Qatar sono molto dure e soltanto un ponte aereo turco riesce a scongiurare una grave crisi alimentare ai danni di un popolo ricco ma impotente di fronte all’assedio dei vicini.

Il sostegno fornito da Erdogan al Qatar, durante quella che venne definita la “Crisi del Golfo”, ha segnato in modo negativo e definitivo i rapporti tra Turchia, sauditi e loro alleati del Golfo, con forti ripercussioni sugli scambi commerciali (è stato invocato un boicottaggio generalizzato delle merci turche) e in generale sull’economia turca che ha risentito del calo delle esportazioni in tutta l’area.

L’attivismo spregiudicato del leader turco, le spese folli per sostenere il ponte aereo verso il Qatar e l’impegno militare in Siria hanno messo in crisi l’economia di Ankara ben prima che gli effetti economici della pandemia da Covid-19 si facessero sentire anche in Turchia, con effetti devastanti sui livelli di vita della popolazione.
Boicottaggio dal Golfo, minacce di sanzioni dall’Europa e sostanziale isolamento internazionale non hanno tuttavia, al momento limitato l’avventurismo del presidente turco, che come un accanito giocatore d’azzardo rilancia su più tavoli nella speranza di rifarsi delle perdite.

Dalla Libia all’Armenia, dal Mediterraneo al Mar Nero il leader di Ankara, con il sostegno degli amici di Doha, continua a tentare di giocare un ruolo da protagonista.

In Libia ha inviato propri soldati e miliziani siriani di Jabat Al Nusra a combattere al fianco delle forze leali al presidente Al Serraji, costringendo il suo oppositore, il generale Haftar, a interrompere l’offensiva su Tripoli della scorsa primavera estate.

Sul terreno libico, le ingerenze turche hanno provocato la dura reazione del presidente egiziano, Al Sisi, che ha diffidato turchi e lealisti dal superare la “linea rossa” a ovest di Sirte, minacciando l’invio di truppe di terra.
Nel Mediterraneo la crisi è aperta e lontana da una soluzione.

Le mire di Ankara sulle zone economiche esclusive al largo della parte turca di Cipro e delle isole dell’Egeo orientale per la ricerca e lo sfruttamento di gas sottomarino sono duramente e formalmente contestate da Grecia e Francia, mentre l’Egitto di Al Sisi ha addirittura coinvolto Israele in progetti di ricerca al largo delle coste egiziane.
Brilla, nel dibattito sui confini delle aree di ricerca ed estrazione di gas nel Mediterraneo meridionale e orientale, l’assenza totale di una chiara posizione e di impegno del nostro Paese, nonostante la presenza attiva nello scacchiere dell’Eni, lasciata sola nella difficile dialettica libica e mediterranea.

Mentre il dossier sull’indipendenza dei curdi siriani, fortemente osteggiata da Ankara ma sostenuta da Washington, è ancora aperto, l’unico parziale successo strategico raccolto dall’attivismo di Erdogan è stato nel Nagorno Karabach, dove con il sostegno militare turco, i mussulmani azeri hanno inflitto una sconfitta sul terreno agli armeni costringendoli a cedere porzioni di territorio abitate da cristiani.

Il successo turco azero tuttavia non è stato totale, in quanto a garantire la tregua, con il consenso dei belligeranti, sono state schierate sul terreno truppe della Federazione russa. Una vittoria di Pirro, quindi, che consente comunque a Vladimir Putin di controllare il territorio conteso e di continuare a proteggere gli armeni del Nagorno Karabach non solo con la diplomazia ma anche con le sue forze armate.

Con Israele sullo sfondo, rafforzato politicamente dall’apertura dei rapporti diplomatici con il Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti intessuti sotto l’occhio benevolo dell’Arabia Saudita, i rapporti di forza dal Mar Nero alla Libia si vanno delineando e vedono i due “amici dei giorni difficili” sempre più aggressivi ma forse anche più deboli.

Ankara importa il 60% del gas dalla Russia attraverso l’Azerbaijan e, finché non sarà in grado di sfruttare i giacimenti oggetto di esplorazione sulle sponde turche del Mar Nero, non potrà tirare troppo la corda con Mosca, che finora non ha risposto alle provocazioni turche con durezza, ma certamente ha dimostrato con un ministro degli esteri del calibro di Sergey Lavrov, di non chiudere gli occhi o chinare la testa di fronte a una nuova mezzaluna islamista.

Con l’America distratta dagli esiti paradossali delle elezioni presidenziali e l’Europa prostrata dagli effetti sanitari, economici e sociali della pandemia da coronavirus non stupisce che avventurieri della politica internazionale come Erdogan e Al Thany, che non hanno esitato ad appoggiare le peggiori figure dell’estremismo islamico in Medio Oriente, in Nord Africa, nel Caucaso e perfino in Europa. Non stupisce che l’asse Qatar- Turchia finora abbia sostanzialmente tenuto a dispetto delle numerose debacle dei loro alleati, dovute al fronte comune eretto dall’Arabia Saudita e dai Paesi del Golfo.

Quello che stupisce è che questi ultimi Paesi siano comunque stati lasciati soli, con l’eccezione di Russia, Francia, Egitto e Israele a fronteggiare un asse islamista che pretenderebbe di continuare ad agire indisturbato fino ai confini meridionali dell’Europa e dell’Italia.


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