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Joe Biden e il nuovo conservatorismo. Il commento di Ippolito

La destra di domani non ha bisogno di nuove idee, ma di persone che siano in grado di renderle commestibili come medicina contro il collasso della civiltà occidentale, non assolvibili di sicuro con la vecchia logica del progresso inarrestabile e dei diritti globali indifferenziati, cumulati da tutti senza distinzioni oggettive e senza verità. Il commento di Benedetto Ippolito

Gli Stati Uniti hanno un nuovo presidente. Se ancora non formalmente, certo materialmente Joe Biden è stato eletto dagli americani alla guida della prima e più importante potenza politica ed economica del mondo.

Al di là dei temi di una campagna elettorale tutto sommato scialba e sottotono, anche per l’imperversare del Covid, il mondo intero si trova davanti alla prima vera nota di discontinuità del nuovo decennio. La figura del neoeletto inquilino della Casa Bianca non è sicuramente trascinante come quella di J. F.K, né sostenuta da quell’alone di giovinezza che accompagnò il trionfo della famiglia Clinton. D’altronde, neanche la componente razziale che influì, e forse compromise fin dall’inizio per le troppe aspettative, l’elezione di Obama trova analogie con quanto avvenuto nel 2020.

Conosciuto unicamente come un tranquillo vicepresidente con una biografia segnata dalla dignità e dal dolore, Biden è espressione di un moderatismo progressista che ha beneficiato in modo speciale dell’eccezionalità della presidenza Trump, distinta per intemperanze, rotture di protocollo, e inquietudine permanente, ai limiti del trotskismo. Gli americani, pur avendo beneficiato in questi quattro anni delle scelte economiche dell’irriverente contestatore reazionario, hanno preferito in modo chiaro non un’altra politica ma una persona diversa.

Già nella iniziale formazione del suo gabinetto, Biden deve barcamenarsi in una ricerca della propria identità politica con la necessaria accondiscendenza che dovrà avere verso le ali radicali del Partito democratico che lo hanno portato, spesso loro malgrado, al successo.
Quello che si palesa non è pertanto un entusiasmo che non c’è, o una prospettiva chiara e netta che nessuno può avere oggi, neanche il presidente degli Stati Uniti, ma una specie di liberazione da un pittoresco istrione che ha effettivamente stancato l’opinione pubblica, anzitutto paradossalmente quando aveva ragione.

L’insegnamento che lascia questa vicenda, non ancora conclusa, d’altronde, per la nota contestazione dei presunti brogli elettorali, è che in politica non basta avere ragione, ma è necessaria la ragionevolezza di chi impersona delle idee. Trump svela il fallimento di un approccio, di un metodo caotico, farraginoso e smanioso, tutto avvolto nel proprio ego smisurato e cialtronesco.

Nessuno sa non soltanto cosa Biden farà, ma anche soltanto che cosa proporrà ad una nazione largamente conservatrice e poco disposta a dare consenso facile ad iniziative di vecchio progressismo.

La vera partita aperta, nei prossimi anni, è invece quella del Partito repubblicano. L’ascesa di Trump è avvenuta per una incapacità di trovare un candidato politicamente normale che incarnasse il vento di destra di allora. E oggi è quanto mai essenziale che la figura politica del futuro repubblicano abbia connotati umani e personali diversi ed opposti a quelli trumpiani. Si può sostenere il nazionalismo, una politica rigida sull’immigrazione illegale, una visione ferma su religione, famiglia e poteri locali soltanto se non si butta tutto in baraonda e non si dà l’impressione di giocare sugli slogan piuttosto che sostenere idee popolari sì, ma che sono inesorabilmente boicottate sempre nello spazio pubblico da una certa retorica gauche assuefatta al finto buonismo hollywoodiano.

Il futuro del conservatorismo, non solo di quello statunitense, si gioca proprio in questo dramma teatrale che fa da epilogo alla tragedia grottesca del trumpismo. Avere e sostenere una politica verace e contraria allo status quo, combinata anche di riforme perfino drastiche di una certa falsa modernizzazione, richiede non la follia, ma la ponderazione, non la provocazione, ma la persuasione, non lo shock comunicativo, ma la giusta consapevolezza: dunque non Trump ma Herbert Hoover o Barry Goldwater.

La destra di domani non ha bisogno di nuove idee, ma di persone che siano in grado di renderle commestibili come medicina contro il collasso della civiltà occidentale, non assolvibili di sicuro con la vecchia logica del progresso inarrestabile e dei diritti globali indifferenziati, cumulati da tutti senza distinzioni oggettive e senza verità.

Biden è, dunque, una presidenza che nuota in mezzo al mare, tra due sponde culturali destinate a non toccarsi mai, ma da cui devono partire in opposta direzione soltanto navi solide e sicure, e non personaggi da baraccone. D’altronde, la recente nomina della valente Amy Coney Barrett alla Corte Suprema è sicuramente un segno sicuro di speranza, non soltanto per gli Stati Uniti. Il conservatorismo di domani, infatti, deve essere l’opposto di una pessima caricatura della serietà, incarnando la coerente affermazione collettiva di una visione della vita personalmente spesa per i valori permanenti e immutabili della grande tradizione giuridica e religiosa popolare.

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