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L’arresto di Thaci e la sfida tra Usa-Ue nei Balcani. Scrive Pellicciari

Dopo la guerra, prima della pace. L’arresto dell’ex presidente del Kosovo, Hasim Thaci, è parte della competizione tra Stati Uniti e Unione Europea nei Balcani. L’analisi di Igor Pellicciari (Università di Urbino, Luiss Guido Carli)

Anni orsono, durante un ricevimento a latere di una delle tante Conferenze sulla pace nei Balcani, itineranti per le capitali d’Europa al pari di un circuito sportivo a tappe, un ministro degli Affari Esteri dell’area si lasciò scappare un’osservazione rara. Disse che non vi era lavoro più facile politicamente che fare il rappresentante a livello internazionale di un Paese dei Balcani martoriato da una guerra. Ovunque egli si recasse, veniva accolto da applausi, saluti commiserevoli, abbracci solidali. Nessuno verificava le sue personali capacità di governo e la assoluta aurea positiva di cui egli godeva lo metteva al riparo da qualsiasi critica politica.

Per quasi tre lustri, a partire dai primi anni Novanta, i Balcani occidentali sono stati una incredibile fonte di visibilità, spesso anche di legittimità, per tutti gli attori coinvolti, locali o internazionali, qualunque fosse il ruolo che interpretassero. Le guerre e i complicati dopo-guerra prima in Croazia, poi in Bosnia ed Erzegovina e infine in Kosovo e in Serbia hanno a lungo dominato le headline dei media occidentali, che ne hanno seguito gli sviluppi passo per passo, spesso perdendosi nella micronarrazione quotidiana degli avvenimenti.

Con l’arrivo del nuovo millennio, una serie di fattori ne hanno progressivamente ridotto la rilevanza e i Balcani sono scivolati verso la marginalità di cui oggi siamo testimoni distratti. Da un lato l’attentato delle Torri gemelle del 2001 ha spostato l’asse geopolitico di attenzione fuori dall’Europa, verso Asia e Medio-Oriente. Dall’altro l’emergere della Cina e il ritorno della Russia come global player hanno chiuso la stagione degli Stati Uniti “poliziotto del mondo” che aveva toccato il suo punto più alto nei Balcani con la sottoscrizione degli accordi di pace di Dayton nel 1995 ed il bombardamento di Belgrado, nel 1999.

C’è voluto il recente arresto dell’oramai ex presidente del Kosovo, Hasim Thaci, per fare riguadagnare ai Balcani uno spazio sui media occidentali anche se ancora secondario rispetto ai temi del momento (su tutti, le elezioni presidenziali statunitensi e la seconda ondata del Covid-19).

È presumibile che questa rinnovata visibilità sarà temporanea. Intanto, essa porge l’occasione per avanzare considerazioni che a una lettura più attenta contraddicono alcune delle prime impressioni, come spesso accade nei giochi di specchi balcanici. La principale riflessione ovviamente è sull’impatto che avrà l’uscita di scena di Thaci sui rapporti serbo-kosovari. Benché sia figura ingombrante del passato (è uno dei pochissimi leader rimasti ai vertici dai tempi degli scontri bellici, che in verità lo hanno anche lanciato politicamente) Thaci è stato tra gli artefici tattici di un infinito negoziato con Belgrado, oramai arrivato in dirittura d’arrivo. È stata infatti la sua stessa incriminazione per crimini di guerra, a fine giugno 2020, a fare saltare la sua missione a Washington dove avrebbe dovuto concludere un accordo con il presidente Serbo, Aleksandar Vučić.

Dopo anni di ridondante azione europea, questa svolta decisiva ai negoziati sembra essere stata impressa dalla mediazione americana, apertamente preferita da Thaci a quella dell’Unione Europea a trazione tedesca. La sospetta tempistica dell’incriminazione adombrerebbe l’ipotesi che questa rientri tra le mosse dell’Unione europea per bloccare questo accordo dove entrambi i presidenti hanno risposto a suggerimenti in arrivo da Washington (per i kosovari) e da Mosca (per i serbi).

A irritare la diplomazia europea e Berlino sarebbe non tanto il fatto che serbi e kosovari finalmente si pacifichino, quanto che questo avvenga con un reciproco scambio territoriale e conseguente modifica dei confini tra i due Paesi. Questa soluzione, oramai da tempo digerita dalle leadership a Belgrado e a Pristina in realtà creerebbe un pericoloso precedente nell’intera regione. Prima, porterebbe i serbo-bosniaci a sperare con maggiore forza in una unione con la Serbia; poi, aprirebbe al rischio di un complessivo riassestamento dei confini nei Balcani. Evento storicamente mai passato senza profondi traumi. Senza contare che, con una stabilizzazione del Kosovo, la comunità internazionale e in primis l’Unione europea (tra i principali donatori) dovrebbe fortemente ridurre la sua forte presenza nell’area, rinunciando ai molteplici vantaggi geopolitici e al protagonismo che ciò comporta.

Visto da questa prospettiva, è importante nella messa in stato d’accusa di Thaci il ruolo che ha giocato Eulex (European Union Rule of Law Mission), la principale missione civile dell’Unione europea (con uno staff di ben 503 funzionari).

Come è difficile non speculare sull’arresto di Thaci avvenuto subito dopo le elezioni presidenziali americane (solo a settembre Donald Trump è stato insignito della più alta onorificenza di Stato kosovara e più volte nella sua campagna elettorale ha fatto riferimento al suo ruolo nella pacificazione dei Balcani).

Quindi, più che operazione volta a portare giustizia nei Balcani per le ferite mai veramente cicatrizzatesi degli anni Novanta, l’arresto di Thaci potrebbe essere letto come un capitolo nella competizione tra donatori (in primis tra Unione europea e Stati Uniti-Nato) per l’influenza geopolitica su Pristina.

Dal canto suo, il principale errore politico dell’ex-presidente kosovaro – piuttosto frequente in altri leader serbi e croati del passato (da Jadranko Prlić a Milan Milutinović a Biljana Plavšić) – è stato di cedere all’illusione che una partecipazione attiva ad un processo politico sostenuto e suggerito da Washington potesse precludergli una imputazione all’Aja.

A tale riguardo, un commento laconico finale va fatto anche sulla reale efficacia dei Tribunali speciali per i crimini di guerra. Pure ottenendo alcuni risultati importanti, in questi anni essi sono sembrati sempre più essere strumento politico eterodiretto e hanno mostrato molta ridondanza, evidenziando importanti lacune nel punire uniformemente i crimini perpetuati durante le guerre balcaniche. Il fatto che questi tribunali (quello per il Kosovo è stato istituito nel 2015) vengano gestiti (e finanziati) come veri e propri Progetti e non come istituzioni giudiziarie a sé stanti – li espone a una serie di rischi come una cronica debolezza di azione autonoma rispetto a chi li ha istituiti e una burocratizzazione tipica di strutture che cercano di sopravvivere il più possibile per interessi professionali personali.

Senza volere essere maliziosi – ma è normale che chi percepisce un salario di gran lunga superiore a quello cui è abituato “per fare giustizia” in un determinato contesto – in cuor suo spera che questa si avveri di certo. Ma meglio dopo, piuttosto che prima.



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