Le accuse di frode sono il fondo della sua parabola politica. Ma al tramonto della sua permanenza alla Casa Bianca, una verità si fa strada: il trumpismo è meglio di Donald Trump. Il corsivo di Roberto Arditti
Il discorso di qualche ora fa di Donald Trump raggiunge il punto più basso e miserabile della sua parabola politica, per il semplice fatto che tutti abbiamo chiaro che avrebbe detto l’esatto contrario in caso di condizioni ribaltate.
Egli cioè avrebbe sostenuto strenuamente la necessità di contare fino all’ultimo voto se ne avesse avuto motivo, in omaggio al principio che ha ispirato la sua intera avventura umana, imprenditoriale ed istituzionale: faccio ciò che mi conviene, punto e basta.
Siccome però queste sono le ore nelle quali cominciamo a vedere la fine di questa storia (cioè cominciamo a capire che con elevata probabilità sarà Joe Biden ad arrivare alla Casa Bianca), è quanto mai opportuno riflettere sugli anni di presidenza Trump.
Anni turbolenti e confusi, ma non per questo insignificanti.
Anni nei quali il presidente ha spaccato a metà gli americani come raramente in passato, ha diviso tra nemici ed amici il mondo, ha giocato con la sua consueta spregiudicatezza su tutti i tavoli (si pensi al dossier Corea del Nord, tanto per fare un esempio).
In tutto questo però occorre guardare anche con una certa serenità agli accadimenti, soprattutto quando (cioè adesso) la figura di Trump sembra avviarsi verso la condizione di ex Presidente (pensate quando gli darà fastidio l’idea).
Ecco allora venire avanti una evidenza di una certa solidità, riassumibile in una semplice espressione: il “trumpismo” è meglio di Trump.
Traduciamolo in politichese: le scelte compiute sono meglio, mille volte meglio, del decisore stesso.
Facciamo degli esempi, così ci capiamo (forse).
Parliamo dei più delicati scacchieri geopolitici del mondo, a cominciare dal Medio Oriente. Trump ha ridotto la presenza militare americana ed ha favorito accordi di pace che almeno in un caso hanno portata storica, penso cioè alla nuova sintonia tra Israele e alcuni paesi del Golfo. Qui nessuno dei suoi predecessori aveva ottenuto risultati simili, men che meno il tanto amato Obama che aveva scommesso sui Fratelli Mussulmani come elemento stabilizzatore dell’area, commettendo un tragico e macroscopico errore. La scelta senza tentennamenti di rapporto privilegiato con Israele (ma anche con l’Arabia Saudita e, tutto sommato, l’Egitto) ha pagato, dimostrando che spazzare via i mille bizantinismi dei diplomatici di professione è requisito essenziale della buona politica.
Analogo discorso va fatto sulla Cina. Trump ha giocato d’anticipo, mettendo il mondo di fronte alla cruda realtà: Pechino è oggi il soggetto geo-politico più importante del pianeta, ma non per questo può essere preso per buono in ogni suo comportamento. Nessuno aveva osato tanto prima di lui, ma per capire bene di cosa parliamo non serve guardare alle tremebonde capitali europee, bensì occorre misurare i comportamenti nella zona Est del pianeta. Lì troviamo (ma guarda un po’) i più fervidi sostenitori della “linea Trump”, cioè Giappone, Vietnam, Taiwan, Corea del Sud, Australia: tutte nazioni che si confrontano con il Dragone da vicino (e che quindi lo conoscono bene).
Poi c’è l’Europa, divisa in staterelli antichi e nobili, ma forse proprio per questo assai anacronistici. Qui Trump ha sferzato tutti (tedeschi in primis), ricordando che l’illusione dell’America gendarme a titolo gratuito appartiene alla stagione della guerra fredda, non più praticabile al tempo presente. E siccome l’Unione Europea ha fatto spallucce, Trump ha spinto per il distacco della Gran Bretagna da Bruxelles, ferita nell’unità politica del continente di grandi dimensioni di cui porta enorme responsabilità proprio la classe dirigente europea.
Infine c’è l’idea stessa di società del capitalismo globale che Trump ha messo in pratica negli Stati Uniti, un’idea che mantiene in vita i pilastri della visione americana (poche tasse, Stato non troppo invadente) cercando di coniugare il tutto con un ritorno alle produzioni nazionali, in omaggio al semplice principio secondo cui senza industria (digitale fin che si vuole) non c’è economia.
E allora mentre Trump si avvia verso il congedo (fermo restando che i colpi di scena non possono essere esclusi e che quindi abbiamo chiaro che vivremo settimane di passione) occorre riflettere sull’elemento centrale di questa storia: Trump può essere giudicato “orrendo” fin che si vuole, ma su vari fronti ha ragione lui.