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Maradona, un leader politico che giocava a calcio

Ha fatto politica da una città e una squadra che sono sempre state periferia. Anche se a Napoli ci arrivò perché la città non era solo illusione e povertà. Era anche potere politico e bancario. Negli anni Ottanta – regno incontrastato del pentapartito – Napoli contava eccome. Il commento di Massimiliano Gallo

Diego Armando Maradona è stato un leader politico. Come lo è stato Muhammad Alì. I due grandi campioni che più di ogni altro hanno interpretato e vissuto lo sport non soltanto in termini di agonismo e conquista della vittoria. Hanno voluto lasciare il segno e hanno utilizzato il calcio e il pugilato per comunicare. Ovviamente dalla parte dei più deboli. Alì dei neri, dei vietcong, contro l’America bianca che voleva mandarlo a combattere contro chi “non mi ha mai chiamato sporco negro”. Ad Alì tolsero la cintura di campione del mondo perché si rifiutò di andare in Vietnam. È poi diventato un pezzo di storia osannato in tutto il mondo, solo perché – contro il pronostico di tutti – buttò a terra la montagna Foreman all’ottava ripresa in un match che in tanti avevano pensato fosse il suo funerale.

Maradona ha capito molto presto in quale parte del mondo era nato. Se nasci e cresci a Villa Fiorito, il tuo destino è segnato. O ti ammazzerai di lavoro per una vita intera o dovrai fare altre scelte. Maradona è stato da sempre accompagnato dalla rabbia. Come Monzon, altro pugile, argentino, che però scaricava la sua furia sul ring. E basta. Maradona la sua rabbia l’ha diluita in una carriera comunque lunga. Cominciata col primo contratto a sedici anni, con l’Argentino Juniors, quando la sorella disse: “Diego cominciò già allora a mantenere tutta la famiglia”.

Ha fatto politica da una città e una squadra che sono sempre state periferia. Anche se a Napoli ci arrivò perché la città non era solo etera illusione e povertà. Era anche potere politico e bancario. Negli anni Ottanta – regno incontrastato del pentapartito – Napoli contava eccome. C’era il Banco di Napoli. C’era Enzo Scotti come sindaco. Che ebbe un ruolo non marginale nell’acquisto di Maradona. La Dc capì che era un’occasione per la città. E non se la fece sfuggire.

Maradona incarnò l’altra faccia di quella città. La faccia della miseria, come scrisse Mimì Rea. Qualche anno fa si sarebbe detto la battaglia per i Sud del mondo. Ecco, Maradona era il condottiero dei Sud del mondo. Napoli. Cuba. Si caricò la città sulle spalle e la portò alla vittoria. Napoli non aveva mai vinto prima. E non ha più vinto dopo. Era il leader col mantello, anche se basso e tozzo. Non aveva mai paura. E non era mai egoista. Non è mai successo, mai, che preferisse un’azione personale se c’era un compagno piazzato meglio. Anche se il compagno, per forza di cose, era più scarso di lui.

Napoli lo amò fino a soffocarlo. Gli tolse l’aria. Gli si aggrappò. E alla fine lo distrusse anche. Napoli non vuole sentirselo dire, ma è così. In cambio, però, contribuì a consegnarlo alla storia. Il resto – tanto – lo fece lui. Soprattutto la sera in cui decise che era giunto il momento di vendicarsi della guerra delle Falklands e segnò agli inglesi due gol che non hanno più dimenticato: uno con la mano de Dios e l’altro partendo dalla sua metà campo e scartando tutti. Pochi giorni dopo, alzò la Coppa del mondo. La seconda per l’Argentina ma la prima fu vinta in casa in un Mondiale organizzato al tempo della dittatura dei generali.

Come ogni leader politico che si rispetti, oltretutto vincente, Maradona fu anche odiato. Profondamente. Oggi viene celebrato quasi da tutti, allora abbondavano i distinguo sulla sua vita privata. Ai Mondiali del 90 l’inno argentino venne fischiato in ogni stadio d’Italia. Nell’intervista con Kusturica, Maradona dice che gli fecero pagare la semifinale vinta contro l’Italia, proprio nella sua Napoli. Il suo labiale “hijos de puta” gridato all’indirizzo del pubblico romano che fischiava l’inno prima della finale, è la sfida lanciata dal generale che va incontro alla bella morte. Gli rubarono la finale e lui finì in lacrime.

Lo hanno scamazzato più volte. Anche e soprattutto i potenti del calcio. Ma non solo. I moralisti. Gli invidiosi. Quelli che danno i buoni consigli perché non possono più dare il cattivo esempio. Si è sempre rialzato. E non ha mai chinato la testa. Anche quando ha smesso di giocare. Ha scelto Cuba come sua successiva patria. Fidel Castro con cui ha condiviso il giorno della morte: il 25 novembre. Ha vissuto sessant’anni e un mese. Sarà ricordato per molto più tempo.


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