Comunque lo si guardi l’indiscutibile grandezza di Napoleone risalta oggi soprattutto come fautore di un “imperialismo europeo” che dovrebbe e potrebbe fornire spunti di riflessione tutt’altro che irrilevanti a chi si occupa del Vecchio continente e del suo stato tutt’altro che solido. Gennaro Malgieri legge Belloc e Chateaubriand
Napoleone è una presenza perenne. Nel bene e nel male. Lo si può considerare come si vuole, ma non se ne può fare a meno. Si esalta il condottiero, il generale, lo statista l’imperatore o si denigrano i metodi di governo e le idee illuministiche che nella fase dell’ascesa al potere dispiegava a piene mani, comunque lo si guardi la sua indiscutibile grandezza risalta oggi soprattutto come fautore di un “imperialismo europeo” che dovrebbe e potrebbe fornire spunti di riflessione tutt’altro che irrilevanti a chi si occupa del Vecchio continente e del suo stato tutt’altro che solido.
A due secoli dalla sua morte (l‘anniversario cadrà il 5 maggio del prossimo anno), dunque, Bonaparte continua a destare interesse. E la bibliografia già sterminata si arricchisce di nuovi contributi. In aggiunta le riedizioni di libri che ne rie oceano la stupefacente parabola, ripropongono punti di vista dimenticati È il caso della biografia monumentale di Hilaire Belloc, Napoleone condottiero e politico europeo riproposta da Oaks ( pp.471, € 24) e Storia di Napoleone dell’incomparabile François-René de Chateaubriand che Iduna rimanda in libreria per il godimento dei lettori del visconte bretone (pp.469, € 24).
Poche opere come quella di Belloc (La Celle Saint-Cloud 1870- Guildford 1953) lumeggiano l’Europa di Napoleone in una visione assolutamente moderna e precorritrice, nonostante le convulsioni continentali che la sua ascesa provocò. “Aveva l’animo di un combattente e non si lasciò intimidire”, annota Belloc, individuando i caratteri del condottiere oltre che dell’uomo di Stato. E aggiunge che il nostro destino sarebbe stato migliore se non avesse “inciampato” a Waterloo. Nella sua prefazione, Paolo Gulisano sottolinea come Belloc parli con rammarico del tentativo napoleonico di unificare l’Europa “restituendole la pace (a costo di tante battaglie) e riprendendo la tradizione augustea: un progetto che se fosse riuscito, avrebbe cambiato l’intera storia e la cultura di un continente condannato ai moti nazionalisti dell’Ottocento e al massacro della Prima Guerra Mondiale”.
Che Belloc fosse un europeista convinto si evince dalle prime parole del saggio su Bonaparte: “Il compito che oggi ci attende è la ricostituzione dell’unità europea. Non una federazione mondiale (un’idea meccanica, senza base storica, né organica), ma la ricostruzione di un’Europa unita è la massima impresa che ci attende, il cui esito, positivo o negativo, deciderà se dovremo vivere o morire”. Considerazioni attualissime che meritano di essere meditate e che rimandano alla visione napoleonica che fu per l’imperatore un sogno che il destino non gli permise di realizzare.
Chateaubriand (Saint-Malo 4 settembre 1768-Parigi 4 luglio 1848), scrisse a lungo ed intensamente di Napoleone nella sua opera maggiore Memorie d’Oltretomba dal quale è tratto il volume che ne tratteggia la storia con incursioni politiche nel mondo borbonico, a cui si avvicinò dopo la caduta dell’imperatore e racconta la “pace” che fece con lui dopo la sua morte , riconoscendo la grandezza di colui che aveva chiamato il devastatore, elogiandolo sia come amministratore che come legislatore. Le centinaia di pagine che gli dedica in questo libro affascinante, parte considerevole delle Memorie, non sono soltanto un compendio biografico molto dettagliato, ma hanno il valore di un testimonianza della politica francese ed europea tra due secoli. La conclusione delle pagine su Napoleone sono sontuose, quasi il canto funebre di un mondo in rovina dopo aver visto trascorrere per le contrade del mondo lo spirito della storia che ha brutalizzato e rinnovato. “Venti anni sono appena trascorsi dalla morte di Bonaparte – scrive Chateubriand – , e già la monarchia francese e la monarchia spagnola non sono più. La carta del mondo è cambiata; è stato necessario imparare una nuova geografia; separati dai loro legittimi sovrani, alcuni popoli sono stati gettati a sovrani occasionali; attori famosi sono discesi dalla scena, e su di essa sono saliti attori senza nome; le aquile sono volte via dalla vetta dell’alto pino caduto nel mare, mentre fragili conchiglie si sono attaccate al tronco che ancora le protegge”.
Tutto si avvia alla fine, dice Chateaubriand. “Il terribile spirito di novità che percorreva il mondo”, come asseriva Napoleone si disfa, ma non si dissolve. La sua ombra, quasi come un antico condottiero, si drizza sola all’estremo limite dell’antico mondo distrutto, auto-apologia di una grande esistenza individuale al cui confronto saranno nani coloro che domineranno nelle società infime e livellate.
Non lo amava Chateaubriand, ma la sua intelligenza non lo condannava. Riconobbe la grandezza dell’uomo e dello statista e del condottiero, e si confermò visconte uomo di passioni mitigate dalla ragione e dalla buona disposizione d’animo.
Infatti, Chateaubriand può essere considerato il testimone più attendibile dei mutamenti che hanno connotato la nascita dell’epoca che chiamiamo moderna. Egli ha visto con i propri occhi, e spesso da protagonista ogni cosa: una monarchia diventare repubblica; la repubblica trasformarsi in impero; l’assolutismo cedere il passo alla democrazia; la democrazia farsi terrore; il terrore cedere il posto all’ordine nuovo di un militare venuto dal nulla e poi la restaurazione e le illusioni finire con una “monarchia repubblicana”. L’intreccio di eventi, non esente da purissima poesia nel vissuto e nell’immaginario, ha formato il capolavoro di Chateaubriand che non è racchiuso soltanto nella sua opera maggiore, ma nelle migliaia di pagine e di articoli gioirnalisti pubblicati specialmente nel suo quotidiano “Le Conservateur”, fondato nel 1818. Una sterminata “lettura” storico-politica e morale che non può ancora oggi lasciare indifferenti di fronte ad eventi tanto dissimili che viviamo rispetto all’epoca pot-rivoluzionario, eppur così vicini o per i convulsi intrecci che la modernità, dipanandosi, ha portato in eredità fino a noi.
Insomma, leggere Chateaubriand è una chiave per comprendere il nostro tempo e la “democrazia illiberale” – descritta in altri termini – da un grande conservatore. La sua profondità intellettuale spiega l’elogio di Charles Augustin de Saint-Beuve: “Noi siamo tuoi figli! Le tue idee, le tue passioni, i tuoi sogni non sono più solo le nostre, ma tu ci hai indicato la strada e seguiamole tue tracce”.
Anche Marc Fumaroli, nel suo sontuoso saggio dedicato all’aristocrazia ha seguito le sue tracce. E ci invita con la “riscoperta” propostaci, certamente la più eloquente letterariamente considerandola, a “una traversata della grande tempesta poetica delle Memorie d’Oltretomba e del campo magnetico entro il quale si è formata. Esso presenta il panorama dei sentimenti, dei pensieri, delle passioni di un grande essere che fu anche un grande poeta, nato vent’anni prima del 1789 e morto nei giorni di tumulti e repressione cruenta del giugno 1848”. Ovviamente comprendendovi anche Bonaparte.
Fu perciò “navigatore tra due rive”, Chateaubriand, come testimone e protagonista di vicende contraddittorie che segnarono la storia della Francia e diedero il tono a quella dell’intera Europa. Un tale “viaggiatore velato” viene accompagnato nella sua odissea ai quattro punti cardinali del “secolo delle rivoluzioni” da un “fedele” indagatore come Fumaroli che delinea così, per suo tramite, una stupefacente mappa dei conflitti tra modernità e antimodernità, tra illuminismo e anti-illunimismo, tra razionalismo e fede, tra un mondo che si lacera e si dissolve e uno nuovo che nasce all’insegna dell’eternità per poi scoprirsi precario e fragile.
Ma che cosa sono le Memorie d’Oltretomba nella storia della letteratura e del pensiero europei le cui suggestioni arrivano fino a noi con il fardello di un annuncio che probabilmente non abbiamo ancora decifrato del tutto? Lasciamo dire a Fumaroli: “Sono il riepilogo di una vita che ha sperimentato l’impotenza della parola e dello scritto a governare gli spiriti, e di un ‘secolo di rivoluzioni’ che ha inaugurato un’èra di instabilità permanente e di ‘marcia nelle tenebre’… Esse redigono il documento più tetro dell’inanità umana a controllare il ‘progresso’ sociale, morale, politico e tecnico di cui l’uomo moderno si è eletto a demiurgo. Ma la loro poesia ‘assolutamente moderna’ scatena la sua ironia, e un compiaciuto disprezzo, sull’esistente che si pone come la sola misura del ‘possibile’ e contro gli uomini che si attribuiscono un dominio razionale su certe forze materiali che sfuggono loro di mano e li beffano”.