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Non solo Ilva, Taranto avanti ma con realismo e senza illusioni

Sulla protezione delle grandi imprese e fabbriche si giocherà buona parte della futura crescita di prodotto interno lordo e di occupazione del capoluogo e di alcuni Comuni del suo hinterland. Se ne facciano perciò una ragione, numeri alla mano, coloro che a Palazzo auspicano un’Ilva senza area a caldo, o addirittura dismesso nella sua interezza

Taranto è la città italiana che nell’ultimo mese ha attirato le maggiori attenzioni del governo per il rilancio economico del suo territorio, e ciò si comprende meglio ove si pensi che nel capoluogo ionico è insediata la più grande acciaieria a ciclo integrale d’Europa, che è anche la maggiore fabbrica manifatturiera d’Italia per il numero dei suoi addetti diretti, pari tuttora a 8.200 unità. Lo stabilimento, con quelli collegati a “valle” di Genova e Novi Ligure, è tuttora di proprietà della società Ilva in amministrazione straordinaria e affidato in locazione, propedeutica all’acquisto, ad AmInvestco Italy, controllata dalla multinazionale Arcelor Mittal che aveva vinto la gara per l’aggiudicazione dell’intero gruppo siderurgico, già di proprietà della famiglia Riva che era stata affiancata con una quota del 10% da una società di Nicola Amenduni,  un altro dei più autorevoli imprenditori italiani del settore.

Gli eventi dell’ultimo mese a Taranto, iniziati lunedi 12 ottobre con la visita della delegazione ministeriale guidata dal Presidente Conte, meritano allora, a nostro avviso, una riflessione che faccia il punto su tutto quanto è stato annunciato e promosso a partire da quella giornata che potremmo anche definire, pur con un pizzico di enfasi,  epocale per la città.

Ed è stato inaugurato infatti in questa occasione il corso di laurea in medicina che costituisce una risorsa preziosa per il territorio. Si è dato avvio al cantiere per il nuovo ospedale che sarà costruito in tempi record dal raggruppamento di imprese guidato dalla Debar dell’Ing. De Bartolomeo, che ha previsto anche l’impiego di lavoro notturno; si è sottoscritto il protocollo per il trasferimento dell’ex stazione torpediniere dalla Marina Militare all’Autorità portuale per avviarvi approdi diportistici e la costruzione di un acquario green; si è stabilito che nel porto sullo yard Belleli, dopo la bonifica del costo di 35 milioni, potrà insediarsi il cantiere della Ferretti, azienda leader controllata da capitali cinesi per la costruzione di grandi yacht che, con un investimento di 100 milioni, a regime impiegherà 200 addetti diretti; si sono avviate inoltre gare d’appalto per recuperi nella città vecchia per 22,5 milioni: insomma un insieme di interventi destinati ad avere impatti socioeconomici sul breve, medio e lungo periodo.

A quanto stabilito in quella giornata si è unito nei giorni scorsi l’annuncio dell’investimento della Philip Morris in un digital information service center per i consumatori italiani di prodotti senza combustione che ammonterà a 100 milioni con una occupazione a regime di 400 addetti.

Quelli appena ricordati sono impegni ufficiali di soggetti pubblici e privati che hanno offerto l’occasione al Sindaco di esprimere piena soddisfazione per il percorso da lui definito di “riconversione” postsiderurgica – ma che noi preferiamo considerare di “diversificazione” – dell’economia cittadina, un percorso promosso con determinazione dall’amministrazione comunale che, con l’aiuto del governo e della Regione, aveva già registrato altri risultati, come ad esempio lo svolgimento nel capoluogo ionico dei Giochi del Mediterraneo del 2026, con tutte le ricadute che questo evento determinerebbe.

Certo, se si passasse poi a valutare il reale impatto in termini di incremento del pil e dell’occupazione dei vari interventi – da misurarsi solo in parte per l’oggi come quello del cantiere per l’ospedale – risulterebbe del tutto evidente che esso si dispiegherebbe per entrambe le voci prevalentemente in un arco temporale di medio-lungo periodo e in misura tale da recuperare solo in misura molto parziale la flessione di prodotto interno lordo e di posti di lavoro causata dalle vicende dell’Ilva negli ultimi tre anni. I cantieri previsti in particolare, una volta completati gli interventi, non occuperanno più manodopera.

Ferretti e Philip Morris creerebbero 600 occupati. Nell’area portuale la Yilport ha rimodulato (al ribasso) causa covid i piani occupazionali per il riavvio del terminal container. Ma non si dimentichi tuttavia che vi sono ancora 1.700 addetti in cigs presso l’Amministrazione straordinaria dell’Ilva, 8.200 occupati diretti nel suo stabilimento, che è la più grande fabbrica manifatturiera d’Italia per numero di persone impiegate, e circa 5mila unità nell’indotto. Forza lavoro, inoltre, che si distribuisce per residenza in vari Comuni della provincia e in centri del Brindisino e del Barese.

Nel piano di sviluppo strategico della Zes ionica validato dai Ministeri competenti – ma che nessuno sul territorio ci risulti abbia ancora discusso pubblicamente – non si prevedevano (purtroppo) incrementi occupazionali sul breve-medio termine, da considerarsi al netto delle perdite di quelle pesanti per la crisi dell’acciaieria e del suo indotto, ma si ipotizzava solo (prudentemente) un reintegro di occupati in nuove attività rispetto a quelli perduti nella ristrutturazione del ciclo siderurgico.

Allora, senza sottovalutare i progetti di diversificazione settoriale dell’economia cittadina – peraltro già proposti da chi scrive con ampi dettagli settoriali nel volume Taranto capitale del 2011 – è sempre sull’assetto della grande fabbrica che si giocherà buona parte della futura crescita di prodotto interno lordo e di occupazione del capoluogo e di alcuni Comuni del suo hinterland. Se ne facciano perciò una ragione, numeri alla mano, coloro che a Palazzo di città auspicano uno stabilimento senza area a caldo, o addirittura dismesso nella sua interezza.

Su questa strada non hanno alcun ascolto da parte del Governo, dei Sindacati, di Confindustria e di altre associazioni datoriali, dell’Autorità di sistema portuale, di banche, di Politecnico e Università e di tutta la supply chain della fabbrica.

L’industria siderurgica in riva allo Ionio è e deve restare, lo ripetiamo ancora una volta, un cardine del manifatturiero nazionale e, innovata tecnologicamente e resa pienamente ecosostenibile, dovrà continuare ad assicurare occupazione diretta e indotta elevata, reddito crescente per l’area e beni intermedi per il comparto meccanico italiano. In tale prospettiva la trattativa in corso fra Invitalia, Aminvestco e governo sul futuro dell’Ilva e dell’impianto in Puglia dovrà approdare a soluzioni assolutamente chiare su chi dirigerà la società, chi lo stabilimento di Taranto e quelli di Genova e Novi ligure, e soprattutto su chi deciderà le politiche di mercato che verranno perseguite. Il gruppo franco-indiano, comprensibilmente alla luce delle sue convenienze, non vuole portare Taranto a competere (e battere) sul mercato i suoi siti in Francia di Dunkerque e Fos sur mer. Ma questo sarebbe anche l’interesse di un azionista pubblico italiano?

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