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Pronto, Mosca? Pellicciari spiega perché Putin non chiama Biden

Passano i giorni ma ancora dal Cremlino non è partita una telefonata di Vladimir Putin per congratularsi con Joe Biden. Cosa spiega questo eccesso di attendismo? E perché “la guerra dei presidenti” ha tanto spazio sulla stampa russa? L’analisi di Igor Pellicciari, professore di Storia delle Relazioni internazionali alla Luiss e all’Università di Urbino

Nella caldissima settimana dominata dalle cronache del dopo voto presidenziale Usa, vi è stato spazio di riflesso anche per due notizie, una di cronaca politica e l’altra di gossip, riguardanti la Russia.

Da un lato la notizia del silenzio del Cremlino sul risultato elettorale e dall’altro il gossip secondo cui Vladimir Putin sarebbe gravemente malato e in procinto di dimettersi con l’anno nuovo hanno rotto la monotonia di una settimana di commenti tutti incentrati sulle lacerazioni statunitensi.

Come spesso accade, il gossip sul presidente russo ha attirato una maggiore attenzione, sia per il carisma che circonda la figura di Putin, sia perché indiscrezioni del genere fanno in genere più audience delle nude cronache politiche (l’enorme successo italiano di un sito di info-gossip come Dagospia lo sta a testimoniare).

Ci riproponiamo di tornare presto su queste pagine a commentare questa indiscrezione su Putin non tanto per confermarla o smentirla, quanto per comprendere il vero significato (e obiettivo) politico della tempistica della sua circolazione nei media.

Tuttavia, la principale notizia importante da commentare oggi è che la Russia non si è ancora unita alla schiera dei Paesi che si sono congratulati con Joe Biden per la sua vittoria su Donald Trump, oramai data per scontata (pure la Cina, anche se in ritardo, alla fine ha riconosciuto il risultato).

Applicando oggi le categorie del Russiagate unchained di quattro anni fa, si dovrebbe ipotizzare che Mosca, sostenitrice ora come allora di Trump, si opponga a Biden come all’epoca a Hillary Clinton.

Eppure non si sono levate voci importanti a sostegno di questo teorema, nemmeno tra i sostenitori del Partito democratico tradizionalmente più critici nei confronti del Cremlino e fautori della ipotesi sempreverde della continua interferenza russa nella vita politica americana.

Sgonfiatosi questo filone, i motivi della cautela di Mosca nel riconoscere la vittoria di Biden sembrano risiedere altrove.

In primo luogo va detto che il mainstream russo non può che compiacersi per la confusione che sta caratterizzando la vita non solo politica degli States in questi giorni.

In una democrazia ancora giovane ed in transizione come quella russa, con evidenti complessi di inferiorità istituzionale nei confronti di quella secolare americana, è condizione piuttosto rara quella di potersi mettere a sottolineare le incongruenze e le fratture del Paese maggiormente percepito come proprio competitore sulla scena internazionale.

È una comfort-zone che garantisce al Cremlino di potere sottolineare gli anacronismi istituzionali di Washington (nell’anno in cui Mosca ha introdotto una nuova Costituzione approvata da un referendum – istituto peraltro sconosciuto negli  Usa) oppure sottolinearne le tensioni razziali (storicamente la società russa, pur tra molte questioni aperte, è meno divisa etnicamente di quella statunitense).

È comprensibile che a Mosca si speri che questa incertezza negli Usa si prolunghi il più a lungo possibile.

Essa cade proprio mentre il Cremlino si trova in uno dei momenti più delicati della sua recente storia, sottoposto a troppi stress tests contestuali interni (Covid-19, crisi economica, crollo del rublo, avvelenamento di Alexey Navalny) ed internazionali (Bielorussia, guerra del petrolio, scontro Armeno-Azero, rivolte in Kyrgyzstan).

Sottolineare le debolezze del campo opposto americano da un lato riduce l’attenzione sulle proprie sul piano interno; dall’altro permette di mettersi in una posizione tutto sommato favorevole del tipo “se-Mosca-piange-Washington-non-ride”.

Tanto più che l’attuale incartamento della situazione Usa non è ascrivibile ad una interferenza pre-elettorale della Russia e questo – a differenza di quattro anni fa – è accettato oramai da tutti i commentatori, anche quelli tradizionalmente più russofobi.

A tal punto da buttare oggi un’ulteriore, ennesima, ombra sulla reale consistenza dello stesso Russiagate originario (inteso – si badi – non come generica attività di intelligence dei russi sugli americani ma come strategia di indebolimento della Clinton concordata con Trump per farlo vincere nel 2016).

Esiste tuttavia un altro motivo più profondo per cui è probabile che Mosca attenda l’ufficialità dell’esito per congratularsi con il vincitore delle elezioni Usa.

Anche in questo caso poco ha a che vedere con il risultato maturato finora (a parità di incertezza sui risultati, il Cremlino avrebbe evitato di congratularsi anche con Trump nel caso di una vittoria non ufficiale).

Nel verticismo iper-formalista burocratico Russo accettare un risultato elettorale solo sulla base di una “evidenza politica” ed in assenza di un atto ufficiale che certifichi un vincitore creerebbe un pericoloso precedente per Mosca stessa.

Sul piano interno, perché potrebbe dare il messaggio potenzialmente eversivo che, davanti ad una eventuale “evidente vittoria” elettorale magari di una forza di opposizione non vi sia bisogno di una ufficializzazione dei risultati (un passaggio storicamente utilizzato in chiave conservatrice e difensiva dall’establishment, non solo in Russia).

Sul piano internazionale, perché contraddirebbe gli argomenti de-jure rispetto a quelli de-facto che i diplomatici Russi hanno con forza sostenuto in crisi recenti come in Ucraina (tacciando come illegittima la cacciata a furor di popolo del presidente Viktor Yanukovich) o in Siria (difendendo l’intervento russo perché a sostegno del legittimo governo di Bashaar Al Assad).

Senza dimenticare che – per difendere lo stallo creatosi in Bielorussia, mal digerito dal Cremlino – il principale argomento usato da Mosca per giustificare la propria difficoltà ad agire contro Alexander Lukashenko è che egli abbia legittimamente vinto le elezioni.

Non deve dunque sorprendere che – a quasi due settimane dal voto – gran parte dei media russi continuino a dare ampie aperture allo scontro Biden-Trump (il sito di Russia Today del 15 Novembre addirittura gli dedica tutti i primi sei -!!?- richiami in prima pagina).

Questo ampio spazio dato alla “guerra dei due presidenti” inevitabilmente riduce quello dedicato alle preoccupanti ma ripetitive cronache nazionali del Covid. E il tutto avviene con toni e plot narrativi che sembrano un sequel di House of Cards, serie televisiva tra le più amate. Anche in Russia, proprio per la sua demitizzazione teatrale della democrazia americana.

 

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