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Medio Oriente, ecco i sei stress test sul tavolo di Blinken

Sul tavolo del segretario di Stato americano ci sono già dossier scabrosi che riguardano un’area delicatissima: il Medio Oriente allargato e i suoi prolungamenti. Ecco i sei temi su cui Blinken dovrà lavorare subito

Il segretario di Stato nominato dal presidente eletto Joe Biden, Tony Blinken, non è ancora entrato a Foggy Bottom e già si trova sul tavolo alcuni dossier scabrosi. Attendendo la conferma dal Senato, che avverrà dopo l’insediamento (ossia a fine gennaio prossimo) è presumibile che il futuro capo della diplomazia americana stia già studiando a fondo. Chi lo conosce, come Paolo Valentino (corrispondente da Berlino ed esperto giornalista diplomatico del CorSera) racconta di lui: “Mi colpirono la chiarezza cartesiana dei suoi ragionamenti di politica estera, la capacità di non perdere mai di vista il quadro strategico mondiale e la sua semplicità di modi”.

Se è vero quel che Blinken disse a Valentino, “la politica estera americana ha una continuità, i fondamentali non sono in discussione”, è altrettanto vero che l’indirizzo politico di chi guida la Casa Bianca e dell’Amministrazione che ne consegue sono un aspetto non secondario. Guardare il ruolo che Donald Trump ha cercato di indirizzare col suo America First e quello che invece Biden rivendica. In questi primi giorni da presidente in transition, il democratico non fa che sottolineare che con lui gli Stati Uniti torneranno a essere la guida del mondo, partendo dall’esempio che intendono dare con i propri comportamenti in politica internazionale.

Ecco allora una carrellata veloce di dossier scabrosi che il segretario Blinken si trova già sul tavolo del suo studio, su cui dare un esempio, che si sommeranno a quelli ancor più delicati che riguardano il totale del confronto globale con la Cina, macro-tema per il futuro americano che difficilmente cambierà – se non in forma e toni, magari – col cambio di amministrazione. Partiamo.

Primo, la Libia. Gli Stati Uniti sono restati per lungo tempo piuttosto distanti all’evolversi della crisi, salvo poi trovarsi destinati a interessarsi di nuovo quando sono uscite le notizie dell’arrivo dei russi sul lato della Cirenaica anti-Onu. Nonostante si sia adesso intavolato un delicato percorso di dialogo – per ora non proficuo, destinato a tempi e dinamiche lunghe – la presenza di forze russe sul terreno permane. È di queste ore la pubblicazione di immagini satellitari che riguardano un Sukhoi Su-24 schierato sul lato orientale della Libia. Si tratta di un rafforzamento precedentemente non noto, mentre di altri assetti militari (e di altre unità terrestri) il Pentagono, tramite il Comando Africa, si era occupato con durezza: per gli Usa è inaccettabile che la Russia pianti una presenza militare stabile nel paese nordafricano.

Secondo, la Turchia, allargamento del dossier libico, dove Ankara s’è schierata per difendere Tripoli e ha trovato modo di trasformare l’operazione di intervento in sfera di influenza, piazzando diverse unità militari in Tripolitania con l’evidente obiettivo di rimanere. Altrettanto intollerabile per gli Usa, perché la questione crea criticità in Europa e si somma ad altri slanci avventuristici erdoganiani. Dal Mediterraneo orientale al Caucaso, la presenza turca in scenari di crisi come obiettivo geopolitico rischia di essere uno dei grandi temi per gli Usa. Vincolati dall’alleanza intra-Nato e dall’importanza strategica che Ankara ha finora avuto nel Medio Oriente, difficilmente ci saranno rovesciamenti importanti, ma è potenziale che il pensiero di Biden e la linea Blinken – totalmente sovrapponibili – siano indirizzati a una qualche forma di contenimento.

Terzo, l’Egitto e l’Arabia Saudita (e gli Emirati Arabi). Parlare di Turchia significa parlare della scissione intra-sunnismo che porta Ankara e Doha da un lato e Cairo, Riad e Abu Dhabi dall’altro. Spaccatura che riguarda l’interpretazione politico-culturale della corrente maggioritaria dell’Islam, ma che ha chiaramente riflessi geopolitici. Se le ambizioni sud-occidentali di Ankara, ossia quelle nell’area Mena, saranno viste con maggiore severità, si può pensare che su quelle caucasiche siano concesse maggiori libertà: la presenza nel Caucaso e il potenziale prolungamento nello Xinjiang è problematica per Cina e Russia, e ciò significa che è problematica per due rivali americani; quella in Medio Oriente e Nord Africa intacca invece più da vicino gli americani e le relazioni nell’area.

Quarto, il Medio Oriente. Dossier complesso, chiaramente da spacchettare, che soffre oltre alle intemperanze turche il ritiro americano apparentemente promosso da Trump, con conseguente allargamento di spazi per russi e cinesi. Argomento importante per recuperare terreno ed equilibri sarà la cura di certe relazioni. Innanzitutto quelle con Israele: Blinken, ebreo, è sensibile alle problematiche e ha dimostrato di preferire il dialogo con lo stato ebraico sui palestinesi piuttosto che meccanismi di pressione. Tutto questo si ripercuoterà sul proseguimento degli Accordi di Abramo? Si vedrà, intanto val la pena sottolineare come il futuro segretario di Stato abbia espresso perplessità sulla vendita degli F-35 agli Emirati, perché limiterebbe il vantaggio qualitativo-militare, e dunque strategico, di Israele rispetto agli altri paesi dell’area.

Quinto, l’Iran. Trattare l’area mediorientale senza parlare di Iran sarebbe impossibile. Gli Accordi di Abramo d’altronde non sono una semplice normalizzazione tra mondo ebraico e musulmano – tant’è che l’Arabia Saudita ne resta per ora fuori, e forse per sempre – ma riguardano il contenimento iraniano. I Democratici chiederanno al dipartimento di Blinken di prendere una posizione più dura sulla questione dei missili balistici e delle proxy wars che l’Iran porta avanti nella regione, l’amministrazione Biden potrebbe essere pragmatica e cercare un tentativo di dialogo con Teheran che allarghi l’architettura del Jcpoa, pur mantenendone il quadro. Questo significa anche intaccare le attuale relazioni simil-familiari che l’amministrazione Trump ha ricostruito con Riad, che come in precedenza con Barack Obama potrebbe sentirsi minacciata da questo pragmatismo americano (a ciò si legano i contatti tra l’erede al trono saudita con il primo ministro israeliano arrivati ai media in questi giorni? Molto probabile).

Sesto, la Siria. Sembra un tema dimenticato, ma è stato per anni (e in parte ancora è) lo snodo della totalità delle dinamiche mediorientali, o forse è meglio dire che è stata la crisi che ha portato alla luce le dozzine di faglie interne al sistema geopolitico regionale. Blinken nel 2013 era favorevole ad attaccare il regime assadista in forma punitiva dopo gli attacchi chimici sui ribelli a Damasco. Non si parlerà di regime change, ma non si può escludere una visione più severa sul procedere della fine della guerra civile. Il dossier siriano racchiude sia l’Iran (attore sostenitore ideologico e pragmatico del regime), sia la Russia (che per interessi ha puntellato il rais e ha creato nel territorio una base avanzata nel Mediterraneo), sia la Turchia (che ha costruito dalla Siria la coopetition con Mosca, e che dai regni sunniti è vista anche per questo come una realtà più ingombrante della Repubblica islamica) e infine il Golfo (dove la spaccatura interna contro il Qatar è un problema per Washington, che a Doha ha l’hub strategico del CentCom).

(Foto: Flickr, State Departement, un incontro del 2015 tra l’allora vice-segretario Blinken  e l’ex ministro degli Esteri libico)


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