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Telelavoro e produttività nel settore pubblico. La riflessione di Balducci

Da noi la produttività viene perseguita attraverso un corposo apparato normativo cui sono agganciati significativi “premi” finanziari. Che cosa bisogna fare per rendere il telelavoro efficace?

In questi giorni forte è la polemica che contrappone gli operatori privati pesantemente danneggiati dai provvedimenti di chiusura miranti a contrastare la diffusione dei contagi del virus corona e i pubblici dipendenti costretti a lavorare a casa in modalità telelavoro (non smart working che è una cosa un paio di tappe più avanti rispetto al telelavoro). I privati rimproverano ai dipendenti pubblici che i servizi erogati sarebbero notevolmente scaduti di qualità e, in particolare, che sono saltati tutti i termini temporali cui la pubblica amministrazione dovrebbe essere vincolata.

Qui si pongono due problemi:

(i) da una parte c’è da chiedersi se i meccanismi di gestione della performance su cui si sono riposte tante speranze di miglioramento della nostra amministrazione pubblica (meccanismi che prendono le mosse dal Dlgs 29/1993 in particolare art. 20, il Dlgs 286/1999, giù giù sino al Dlgs 150/2009 e all’ultimo Dlgs 78/2018) stiano funzionando;

(ii) da un’altra c’è da chiedersi se il telelavoro non richieda modalità specifiche per dare buoni risultati. Vediamo i due punti separatamente.

I meccanismo di gestione della produttività previsti dal legislatore

Se comparo la normativa italiana con quella tedesca, francese, dello UK, del Belgio e dell’Olanda scopro che in nessuno di questi paesi, a differenza dell’Italia, sono previsti meccanismi incentivanti di tipo finanziario. Gli studi sul lavoro hanno oramai chiarito al di là di ogni ragionevole dubbio che l’incentivo monetario possa funzionare quando si tratta di prestazioni di tipo intellettuale. L’incentivo finanziario funziona nel settore commerciale (la provvigione dei venditori) e nel settore della produzione a cottimo (oggi di fatto scomparso perché automatizzato). Sopra le Alpi la produttività viene promossa da azioni miranti a cambiare le modalità di organizzazione del lavoro (promozione realizzata attraverso interventi formativi).

Da noi la produttività viene perseguita attraverso un corposo apparato normativo cui sono agganciati significativi “premi” finanziari. Il fatto è che per guadagnarsi il premio finanziario ci si deve limitare a rispettare le norme sulla produttività. In effetti abbiamo una sorta di “produttività per adempimento”.

Nel nostro Paese i meccanismi di gestione di questo pesante corpo normativo sono per di più affidati a istituzioni schizofreniche. Sopra le Alpi l’organo di controllo del buon funzionamento è la Corte dei Conti. Da noi, accanto alla Corte dei Conti (che possiede i dati finanziari indispensabili per la quantificazione della performance), abbiamo l’Organismo Indipendente di Valutazione (O.I.V.) che dovrebbe valutare il rapporto output/risorse e outcome/risorse. L’O.I.V. non può fare questa valutazione perché gli mandano i dati sulle risorse (che dovrebbero essere a disposizione della Corte dei Conti). L’O.I.V. è, poi, una evoluzione dei Nuclei di Valutazione previsti dal Dlgs 29/93, nuclei originariamente sottoposti alla sorveglianza di una apposita authority: il CIVIT. Il CIVIT è poi stato assorbito dall’ANAC (l’Autorità Nazionale Anti Corruzione), per cui gli OIV sono una sorta di poliziotti che agiscono come longa manus dell’ANAC, lasciando intravedere che, per il nostro legislatore, il perseguimento dell’efficienza e dell’efficacia si ottenga semplicemente mettendo dei paletti per evitare la corruzione.

Una nota aggiuntiva va qui fatta relativamente al nostro sistema di contabilità pubblica. Come è noto agli addetti del mestiere, a partire dalla legge 42/2009 e dai collegati Dlgs 91/2011, 118/2011 e 18/2012, stiamo lentamente e faticosamente trasformando la nostra contabilità pubblica in una contabilità per missioni. Questa contabilità presuppone che tutte le cifre vengano stanziate per realizzare un obiettivo. Orbene la nostra normativa si è dimenticata di imporre la quantificazione di questi obiettivi. Ne deriva che, mentre sopra le Alpi, la gestione della performance si basa sui processi contabili, da noi manca totalmente il riferimento al costo del servizio reso.

Nel caso degli Enti Locali la situazione è ancora più ingarbugliata. A partire dagli anni 60-70 del secolo scorso si assiste in tutta Europa ad un aumento del peso dei governi locali e regionali. Questo incremento dell’importanza dei governi regionali e locali è da ricondurre al fatto che sono aumentati in quegli anni i servizi che i poteri pubblici sono chiamati ad erogare ai cittadini il che porta alla necessità di decentrare la gestione di questa massa di nuovi compiti, ad evitare che il centro venga ingolfato da una quantità enorme di decisioni da prendere finendo con diventare una sorta di collo di bottiglia che avrebbe bloccato il funzionamento della macchina pubblica. Orbene questi sviluppi hanno portato in alcuni Paesi (Francia) alla creazione di sezioni regionali della Corte dei Conti e in altri Paese (UK) alla creazione di organismi particolari di auditing che rimpiazzano la Corte dei Conti. Orbene da noi abbiamo tutte e due gli organismi: le Corti dei Conti Regionali e i Revisori dei Conti degli Enti Locali, che di fatto raddoppiano il lavoro delle Corti dei Conti Regionali. Il 12 settembre 2020 la sezione delle Autonomie della Corte dei Conti produce la deliberazione n. 18 sulle linee di indirizzo per i controlli interni durante l’emergenza Covi19. La confusione aumenta ancora. La Corte dei Conti non dovrebbe occuparsi di Controlli Interni ma esclusivamente di controlli esterni (auditing esterno).

Da questa complicata vicenda si può dedurre che i meccanismi di gestione della produttività, lungi dall’essere strumenti di miglioramento dell’azione pubblica, sono un orpello che appesantisce l’azione pubblica anche in periodi normali, dove non si fa sentire il Covid19.

Che cosa bisogna fare per rendere il telelavoro efficace? 

La cosa che è subito saltata agli occhi degli osservatori è che il controllo dei subordinati non può avvenire sul semplice controllo della presenza (con buona pace dei tornelli di Brunetta) ma deve avvenire sul controllo dei risultati. Orbene, se il macchinoso impianto della nostra gestione della performance fosse qualcosa di più di un sistema che riduce la performance ad una serie di adempimenti formali, dovremmo essere a cavallo. Invece è sotto gli occhi di tutti che il telelavoro sta bloccando la nostra amministrazione. Il fatto è che, indipendentemente dal fatto se lavoro in ufficio o a casa in modalità remota, il lavoro, per essere produttivo, deve essere organizzato per processi. Nella nostra amministrazione pubblica ancora il lavoro è organizzato in tante piccole botteghe artigiane guidate da un dirigente che è chiamato a firmare ogni atto che abbia una valenza esterna. Questo modo di lavorare è formalizzato nel comma 1 dell’art 5 della legge 241/90 (dove si separa il responsabile di procedimento, cioè colui che istruisce la pratica) dal responsabile di provvedimento (colui che firma conferendo validità esterna al procedimento) e dell’art 17 del Dlgs 267 del 2000 (che prevede che gli atti a valenza esterna debbano essere firmati da un dirigente).

Questo aberrante meccanismo di continua e perpetua supervisione da parte di un dirigente sulle attività dei subordinati rende vacuo ogni tentativo di gestire e promuovere la performance e rende di fatto impossibile il telelavoro, un lavoro cioè gestito secondo la logica sequenziale del computer.

Lavorare per processi significa, in buona sostanza, programmare a priori le singole tappe attraverso cui i vari prodotti (documenti, beni, servizi) devono essere realizzati di modo che il dirigente è chiamato ad intervenire solo in quel 20% o 30% dei casi non previsti dal processo.


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