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Titolo V, Giacalone spiega come sanare un guasto costituzionale

Il governo prova a prendere la palla al balzo e svellere un altro palo costituzionale, divenendo protagonista di una riforma della Carta. Naturalmente non funzionerà, perché se lo propongono loro si opporranno gli altri. Una costituente, invece…

Modificare lo sgorbio che una folle riforma del 2001 introdusse nella Costituzione, riscrivendone il titolo quinto, sembrerebbe intenzione del governo, segnatamente del suo presidente, che in questo modo darebbe un significato ulteriore alla sua sopravvivenza per assenza d’alternative. La stessa intenzione anima il Partito democratico, che per bocca di Orlando propone che quella riforma sia oggetto di concordia nazionale, fra governo centrale e regioni. Qui di seguito perché falliranno e in che altro modo si dovrebbe procedere.

A imporre quella riforma fu la sinistra, per usarla quale arma atta a battere elettoralmente la Lega (allora non ancora nazionalista, non più secessionista e divenuta federalista). Il risultato fu l’autosconfessione della sinistra, che abbandonò la tradizionale affermazione secondo cui la Costituzione si sarebbe potuto riformarla solo in modo “condiviso”, imponendosi per poche unità. Fallì l’obiettivo, perché perse le elezioni. In compenso scassò lo Stato. Quando il Pd, sul punto, propone riforme, dovrebbe avere la cortesia di assumersi le proprie enormi responsabilità. Il centrodestra rimise mano a quella roba, riformando ancora la Costituzione e reintroducendo il concetto d’interesse nazionale (con la Lega in maggioranza e contro i voti della sinistra). Commise l’errore di insalsicciare anche altre riforme costituzionali, provando a vestire i panni del novello costituente. Quando fu convocato il referendum costituzionale se la fece sotto, disertò la campagna e la riforma della riforma fu affondata. Poi fu la volta del centro sinistra renziano, che commise il medesimo errore di assemblare roba disomogenea, salvo realizzare un diverso e coincidente finale: il referendum se lo chiesero da soli e lo usarono usarlo quale plebiscitario viatico verso la permanenza governativa e la promozione di un novello costituente a cavallo. Bocciati.

Dal che deriva che la maggioranza favorevole, nel merito, alla riforma della riforma è assai vasta, ma non si unisce perché ciascuno pensa d’utilizzare il tema contro l’altro. A questo s’aggiunga che in quello sventurato 2001 s’introdusse anche il concetto di regionalismo “differenziato”, poi divenuto vessillo di regioni a guida destra e mancina, pur di rosicare potere e competenze a Roma. Infine venne il virus e dimostrò che avere venti sistemi sanitari regionali è demenziale.

Il governo prova a prendere la palla al balzo e svellere un altro palo costituzionale, divenendo protagonista di una riforma della Carta. Naturalmente non funzionerà, perché se lo propongono loro si opporranno gli altri. Il Pd prova la via non dell’accordo politico, ma di quello fra istituzioni centrali e locali, così finendo di scassare tutto e trattando le regioni manco fossero statualità con cui negoziare.

Approvino, subito, una legge costituzionale che preveda, assieme alle prossime elezioni legislative, l’elezione, su base proporzionale, di una ristretta Assemblea incaricata di rimettere ordine nella materia costituzionale, con a disposizione solo un anno, un anno e mezzo di tempo, successivamente sciolta e il cui lavoro sia automaticamente sottoposto a referendum. Se si sottrae questa materia al gioco parlamentare fra maggioranze e opposizioni (e l’uso del doppio plurale è già una patologia), forse si agguanta un risultato. In caso contrario ci si tiene questa eredità dell’avventurismo e della stupidità, facendo credere che l’irresponsabilità abbia qualche cosa a che vedere con l’autonomia amministrativa.

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