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Recovery Fund, meno manager e più Stato. I suggerimenti di Tria

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Intervista all’economista ed ex ministro dell’Economia: un errore affidare la governance delle risorse a Palazzo Chigi, il Tesoro è il luogo naturale di ogni investimento pubblico, basta con la mania dell’accentramento. I manager saranno anche bravi, ma per dedicarsi a pieno a tale compito dovrebbero tanto per cominciare dimettersi dalle loro cariche. Il Mes? Dall’Italia una soluzione soddisfacente, nessuno è obbligato a chiedere i prestiti

Non è tempo di top manager e di strani accentramenti di potere che fino ad oggi hanno funzionato poco o nulla. Il Recovery Fund è qualcosa di troppo importante, vitale, per essere dilapidato. Non è una questione di competenze, dice Giovanni Tria, ministro dell’Economia dell’era gialloverde, ai tempi del governo Conte I, con un passato al vertice della Scuola di formazione della Pubblica amministrazione. Un bravo manager è sicuramente competente ma non è detto che lo sia nella fattispecie. E allora, sarebbe meglio far fare il lavoro di allocazione e spartizione dei 209 miliardi di euro pronti a piovere sull’Italia a chi il mestiere lo conosce. E non è a Palazzo Chigi.

Tria, tra pochi mesi arriveranno i primi fondi del Recovery Fund. Ma il governo non sembra avere la più pallida idea di come e a chi affidare una tale mole di risorse. Piovono idee e proposte da tutte le parti: manager, super-ministri, burocrati, commissioni…un caos.

Io ho sempre detto due cose. Primo, sul Recovery Fund servirà unità nazionale, a tutti i livelli e a tutti i piani. Per il semplice motivo che chi predispone dei piani di investimento non è detto che poi li possa portare avanti. D’altronde molti governi ci hanno abituato al fatto che non sempre un governo tiene conto degli impegni di quello precedente. Per questo motivo sulla fase decisionale è importante, fondamentale, che tutti ci mettano la faccia, dalla A alla Z. Poi c’è un piano meno politico e più tecnico.

Sarebbe?

Non nascondo una certa perplessità da quello che leggo in questi giorni. Credo che il Recovery Fund debba essere gestito dal ministero dell’Economia, che è il luogo naturale per questo tipo di operazioni. Vede, c’è una deriva da alcuni anni che vede un progressivo accentramento a Palazzo Chigi delle strutture di programmazione economica e questo esclusivamente per logiche di potere. Voglio solo ricordare che nel luglio del 2018, al Mef, io stesso cominciai a lavorare a una unità di missione per gli investimenti pubblici. Palazzo Chigi intervenne affermando di voler seguire personalmente questo dossier, creando Investitalia. Ma dopo due anni non mi pare ci siano stati risultati. Chiarito il punto, io francamente non riesco a capire come si possano selezionare e mettere insieme 300 persone, ci vorrebbe un anno solo per questo.

C’è chi vede in questo accentramento un tentativo di creare strutture a base di manager ma alternative allo Stato. Lei che dice?

Che è esattamente così. Questo atteggiamento mira a realizzare strutture alternative a quelle statali e onestamente mi pare un’operazione con cui distruggere lo Stato. Senza considerare un altro aspetto. E cioè che così facendo anche perché si mette in discussione la stessa democrazia che sta alla base anche del Recovery Fund. Voglio dire, tali strutture parallele, sono senza controllo e sottoposte solo in parallelo ai ministeri. Sono veramente perplesso davanti a simili ipotesi di task force a base di manager e per giunta a Palazzo Chigi.

In un passato non troppo lontano abbiamo assistito a un esperimento con Vittorio Colao, che di competenze certo non era sprovvisto. Eppure del famoso piano che porta il suo nome, non c’è più traccia…

Quella esperienza non è finita bene. Stiamo parlando di persone di altissimo profilo ma se per esempio, come si dice, si volesse coinvolgere i ceo delle grandi partecipate, essi stessi dovrebbero dimettersi per dedicarsi al Recovery Fund. Ribadisco il concetto, quella dei manager mi pare solo una strategia con cui tenere accentrata a Palazzo Chigi l’intera struttura di programmazione economica e dunque il potere sulle risorse. Dobbiamo essere realisti e concreti, tutto ciò che è stato accentrato a Palazzo Chigi non ha funzionato, a cominciare dai fondi strutturali.

Insomma Tria, coi manager e con strutture non pienamente integrate nello Stato, si rischia un pasticcio…

Sì. Anche perché i suddetti manager dovrebbero essere scelti in modo imparziale e non in base alle amicizie. Le faccio un esempio, la Francia. Dove il coordinamento di tutti gli investimenti sono in mano al ministero dell’Economia, il quale dispone del controllo di tutti i fondi nazionali e della regolamentazione occupazionali e industriali. Sono strutture forti, quelle che noi non abbiamo. Ma dobbiamo partire proprio da qui, da strutture articolate ma robuste.

 E se poi cambia governo, che succede? Quei manager che fine farebbero?

Lo abbiamo visto più volte. Ci sono stati governi che hanno stravolto gli impegni presi dall’esecutivo. Vogliamo parlare delle varie Autostrade, Ilva? Abbiamo visto cosa è successo. Lo stesso con questa immensa task force. Poi, se cambia esecutivo, che fine fa? I progetti devono andare avanti, a prescindere dal colore del governo.

La sua visione sulla governance è chiara. Però non ci stiamo dimenticando anche il ruolo della Pubblica amministrazione, che poi sarebbe il braccio operativo di tutta la macchina?

La Pa è lenta se la si rende lenta. In questo anno di pandemia si sono affidate pratiche a degli uffici senza verificare se tali uffici fossero in grado di farlo. Faccio l’esempio dell’Inps. Allora io debbo prima verificare la tenuta della Pa e se manca una struttura la si crea ma dentro il ministero, senza inventarsi l’ennesima task force. A Palazzo Chigi, strutture e task foce non hanno fatto un bel niente.

E il parlamento? Non crede Camera e Senato dovrebbero in qualche modo vigilare? 

Credo che prima di tutto sia necessaria una buona struttura di governance. Lì, bisogna decidere cosa e dove finanziare, il passaggio in parlamento, che è un passaggio politico è importante ma fondamentalmente lascia il tempo che trova. Serve un approccio contingente, perché parliamo di cose che forse alla fine non saranno competenza di questo governo.

La saluto sul Mes. L’Italia aderirà alla riforma del Meccanismo senza tuttavia chiedere gli aiuti. Se lo farà, sarà solo con l’appoggio del parlamento. Una soluzione a metà?

Non è una soluzione a metà. C’è una riforma del Meccanismo che ha delle linee precauzionali, cioè ogni governo è libero di accedere o meno. Alcuni Paesi hanno cercato si inserire regole che all’Italia non stavano bene, come la ristrutturazione del debito, che avrebbe creato non pochi problemi all’Italia sui mercati. Ora queste norme sono state eliminate e allora non ci rimane che scegliere o non scegliere se chiedere i prestiti. Tutto qui.


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