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Whirlpool, la soluzione è nella rigenerazione? L’analisi del prof. Pirro

La multinazionale chiude il sito di Napoli e trasferisce la sede in un altro Paese. La delocalizzazione e la possibilità di reindustrializzare le fabbriche sono temi al centro del caso. Nello specifico Invitalia sta lavorando ad un progetto di rigenerazione manifatturiera, con il gruppo Adler, comparto automotive e aerospazio, e con la Htl Fitting per rilanciare il lavoro. L’analisi di Federico Pirro

La Whirpool, dando corso a quanto aveva già annunciato e più volte confermato anche in incontri al Mise, dal 31 ottobre ha cessato nel suo sito di Napoli la produzione di lavatrici a caricamento frontale e lava-asciuga top di gamma, considerata non più remunerativa, e in procinto di essere trasferita in altro Paese con costi del lavoro più contenuti. Sino al 31 dicembre, peraltro, i dipendenti dello stabilimento partenopeo continueranno a percepire remunerazioni piene, mentre Invitalia è impegnata nel definire un piano di reindustrializzazione della fabbrica per rioccuparne i 420 addetti e tentare anche, nei limiti del possibile, di non penalizzare le attività dell’indotto che davano lavoro a circa 600 unità, distribuite in altre città della Campania, nel cui territorio a Carinaro nel Casertano è presente anche il centro aziendale per le parti di ricambio. La Whirpool infine, che è presente nel nostro Paese con altri impianti, ha confermato in uno degli ultimi incontri in sede ministeriale il piano di investimenti da 250 milioni di euro che riguarda le fabbriche di Cassinetta di Biandronno (Va), Melano (frazione di Fabriano, An), Comunanza (Ap) e Siena.

Maestranze e sindacati nazionali e locali sin dal primo annuncio della dismissione dell’opificio napoletano si sono opposti con diverse e combattive manifestazioni di piazza alla decisione dell’azienda cui anche il governo, sceso in campo con la stessa presidenza del Consiglio schierata accanto al ministro Patuanelli, aveva offerto varie tipologie di incentivi per tentare di rendere competitiva la produzione campana: ma la società è stata irremovibile, pur dichiarandosi disposta ad impegnarsi per la rigenerazione produttiva dell’area, su cui ora le Organizzazioni sindacali puntano con assoluta determinazione per assicurare continuità occupazionale agli addetti e non aggravare così la situazione del mercato del lavoro in quella zona.

Questa vertenza, insieme ad altre che l’hanno preceduta e seguita, ha riproposto con forza agli occhi dell’opinione pubblica nazionale il problema di come rispondere a processi di delocalizzazione di multinazionali che trovino in altri Paesi migliori condizioni competitive per proseguire produzioni prima realizzate in Italia. Com’è noto, qualche misura per scoraggiare tali esodi è stata assunta in un recente passato, come ad esempio quella di revocare incentivi concessi in precedenza per favorire insediamenti nelle nostre aree: una misura di revoca certamente utile nella direzione auspicata, ma non del tutto risolutiva, dal momento che in qualche caso imprese che ne hanno goduto, compiuta una rigorosa analisi costi-ricavi, hanno preferito restituire le agevolazioni godute, a fronte di maggiori benefici conseguibili con la delocalizzazione in Stati che offrivano anch’essi agevolazioni e con mercati del lavoro a costi più contenuti.

Si pone allora con forza – alla luce di una sempre più avvertita esigenza di conservazione dei livelli occupazionali in determinati contesti – la necessità di affinare sempre di più anche sul piano normativo gli strumenti e le azioni per promuovere la reindustrializzazione di siti dismessi; e sono tante ormai in Italia le esperienze già compiute con successo, o tuttora in corso con la speranza di rigenerarli. L’unità di crisi del ministero dello Sviluppo Economico lavora ormai ininterrottamente da molti anni per fronteggiare situazioni apertesi in diverse regioni e in non pochi casi si è pervenuti, sia pure all’interno di percorsi operativi spesso molto laboriosi, a soluzioni positive sotto il profilo produttivo e occupazionale.

Nel caso specifico della fabbrica della Whirpool, Invitalia sta lavorando ad un progetto di rigenerazione manifatturiera, con il gruppo Adler – big player campano di livello mondiale nel comparto dell’automotive e più di recente dell’aerospazio – e con la Htl Fitting per produrre, con investimenti di circa 40 milioni, componentistica per i due comparti, includendovi batterie a idrogeno. Il progetto è ambizioso perché prevedrebbe produzioni di filiere integrate, in grado di reimpiegare a regime – almeno nella formulazione progettuale sinora definita – sino a 280 addetti della multinazionale statunitense. I sindacati, comprensibilmente preoccupati di salvare l’intero organico del sito di via Argine a Napoli e le unità del suo indotto, da un lato mettono in guardia da operazioni truffa – purtroppo già verificatesi in altre aree del Paese, come a Termini Imerese, dopo la partenza della Fiat – ma dall’altro sono pienamente consapevoli che a questo punto è inevitabile puntare alla riconversione della fabbrica, naturalmente con piani industriali credibili, con prodotti competitivi sul mercato, e con gestioni imprenditoriali pienamente affidabili.

Sul complesso problema della reindustrializzazione di aree e impianti dismessi, a parere di chi scrive – che ha collaborato professionalmente per molti anni con organismi pubblici preposti a quel compito – si potrebbero, da un lato, riordinare e migliorare le norme e gli strumenti esistenti a livello centrale e, dall’altro, stimolare le Regioni, che ancora non le abbiano istituite, a dotarsi non solo di task force per l’occupazione, ma anche di strumenti propri per risolvere crisi aziendali su scala locale. Ad esempio, finanziarie regionali di scopo, operanti in esclusive logiche di mercato e non assistenziali, potrebbero essere costituite o riqualificate ove già esistenti, mentre a livello nazionale – ove peraltro Invitalia svolge un lavoro apprezzabile – si potrebbe ipotizzare un suo rafforzamento, finalizzato all’ individuazione, almeno nelle aree di crisi industriali complesse, di comparti e di specifiche produzioni avviabili come scelta imprenditoriale autonoma, qualora non si riuscisse, almeno nella fase d’avvio, a reperire partner privati mobilitabili in determinati investimenti. Ma una volta promossa in forma autonoma un’iniziativa produttiva in settori ricchi di potenzialità e in aree dotate di convenienze per nuovi insediamenti – come infrastrutture adeguate, manodopera qualificata, cluster di subforniture, contiguità con centri di ricerca avanzata, ecc. – Invitalia potrebbe e dovrebbe poi collocarla sul mercato, reperendovi imprese interessate ad acquisirla e dedicando poi le risorse così recuperate a nuove operazioni.

Siamo comunque consapevoli che la proposta avanzata presenta profili economici e sociali di intuibile delicatezza, ma il moltiplicarsi di casi di crisi aziendali nel nostro Paese ritengo che meriti tutti gli approfondimenti necessari per creare o migliorare una strumentazione sempre più avanzata per la rigenerazione economica e produttiva di siti industriali dismessi, o in procinto di esserlo, e di territori dotati di molteplici potenzialità tutte da valorizzare.

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