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Globalizzazione, cosa certifica l’annus horribilis 2020. L’analisi di Polillo

Occorrerà recuperare il tempo perduto, dando all’Europa un profilo diverso: una maggiore coesione interna e regole democratiche che mitighino, in qualche modo, le inevitabili pulsioni egemoniche di questo o di quel Paese. Solo così sarà possibile far fronte alla crisi di quella globalizzazione, che il Covid-19 ha solo contribuito ad accelerare. E che l’annus horribilis del 2020 ha finito per certificare. Il bilancio di Gianfranco Polillo, con uno sguardo al 2021

Vi sono tanti modi per definire il 2020. Dal detto popolare: “Anno bisesto, anno funesto”, al linguaggio più nobile: annus horribilis. Come lo fu il 1992 per Elisabetta II, secondo le sue stesse parole. Quell’anno la Corona era stata travolta da una valanga horribilis, iniziata il 19 marzo con l’annuncio della separazione del principe Andrea da Sarah Ferguson, proseguita il 23 aprile con il divorzio della principessa Anna da Mark Phillips, e culminata a giugno con le anticipazioni del libro Diana. La sua vera storia di Andrew Morton, un dettagliato catalogo di recriminazioni matrimoniali nel quale la principessa del Galles definiva sé stessa “un agnello sacrificale portato al macello il giorno del suo matrimonio”.

Altro annus horribilis il 2009, secondo l’omologo libro di Giorgio Bocca. La crisi economica e l’autoritarismo strisciante, il circo berlusconiano e il discredito internazionale. Il suicidio della sinistra e il ritorno dei fascisti. L’Italia delle ronde e l’Italia dei respingimenti. Il 2009 – continuava la prefazione – sarà ricordato come un anno nero della nostra storia. Un anno in cui molti nodi sono venuti al pettine, tutti insieme, e ci hanno riconsegnato un paese stanco, involgarito, ripiegato su sé stesso e sui suoi atavici difetti. Visione cupa: non c’è che dire. Se solo vi fosse un po’ di relativismo storico.

Quei giorni, per quanto difficili, nel ricordo dei protagonisti rispetto ad oggi erano rose e fiori. Riguardavano il privato. Il vissuto di una regina, nata in un secolo diverso e ferita dai colpi della modernità. O l’antitaliano, come lo stesso Bocca si definitiva, prigioniero dei fantasmi del passato, in un mondo destinato ad evolvere lungo direttrici che poco avevano a che vedere con la nostalgia.

Il nuovo annus ha caratteristiche completamente diverse. È horribilis per milioni di persone che nei quattro angoli della Terra hanno visto morire i loro cari. Morte spesso tremenda come può essere quella da progressivo soffocamento. È horribilis per la paura che ha generalizzato. Distanziamento fisico. Gli altri visti come possibile portatori di una minaccia. Coprifuoco come in tempo di guerra. Ripiegamento su sé stessi è puro tentativo di sopravvivere nella speranza di un possibile indefinibile sereno.

Secondo i dati della Johns Hopkins University, alla vigilia di Natale, il mondo contava oltre 78.5 milioni di contagiati ed un numero di decessi, arrotondato per difetto, di oltre 1,7 milioni di casi. In testa, per valori assoluti, ovviamente le aree più popolose (salvo le eccezioni di cui si dirà): Stati Uniti, India e Brasile. Ma in termini relativi, ossia in rapporto al numero di abitanti, una ben diversa classifica. In testa il Belgio, la regione più cosmopolita dell’intera Europa a causa della forte presenza delle relative istituzioni. Subito dopo la piccola Repubblica di San Marino, destinata ad anticipare la posizione dell’Italia, quindi la Slovenia.

Più impressionante di tutti il caso italiano. Un contagio più contenuto, rispetto agli altri Paesi: ottavo posto nella classifica generale. Meno esteso che in Francia e Gran Bretagna. Leggermente peggio di Spagna e Germania, che seguono a ruota. Ma con un numero di decessi ed un tasso di letalità tra i primi al mondo. In relazione alla popolazione i decessi sono stati pari a 116.5 ogni centomila abitanti. Tra i Paesi con popolazione complessiva superiore ai 10 milioni di abitanti: primo posto in assoluto. Così come per tasso di letalità: vale a dire nel rapporto tra numero dei decessi e numero dei contagiati. In questo secondo caso l’Italia è superata solo dal Messico e dall’Iran.

In altri tempi si sarebbe quasi parlato di un “virus democratico”. A differenza di tante altre epidemie che, seppur con una minore estensione, hanno colpito il mondo (Ebola, Aids, Sars e via dicendo) questa volta le sorti si sono rovesciate. A soffrire di più sono i Paesi Ocse. Quasi una correlazione che collega le nazioni dove il benessere è maggiore ad una più forte diffusione del morbo e ad una maggiore letalità. In quest’area si concentra solo il 17 per cento della popolazione mondiale interessata dalla pandemia. Ma qui, almeno finora, si sono verificati oltre il 52 per cento dei contagi ed il 53 per cento dei decessi. Con un rapporto contagi & decessi/ popolazione pari ad oltre 3. Mentre, nel resto del Mondo il coefficiente è inverso. Pari a 0.6.

C’è quindi tema di riflessione. Le passate epidemie erano, in larga misura, giustificate dall’ambiente circostante: minori presidi igienici, promiscuità più diffusa, povertà endemica, livello culturale. Il dramma dei Paesi da poco usciti o ancora dentro la fossa del sottosviluppo endemico. In queste zone, invece, la pandemia ha colpito meno. Il primo Paese africano censito, nella lugubre statistica dei disastri, è Capo Verde: un tasso di contagio pari al 2,1 per cento della popolazione, contro una media dei Paesi Ocse pari al 3,1 ed una mortalità molto più bassa. L’ indice di letalità del morbo è meno di un terzo della media Ocse. Lo stesso Sud Africa, al quale si attribuiscono, a quanto sembra, le modifiche intervenute nel virus, con la sua maggior forza di diffusione, ha un tasso di contagio pari all’1,7 ed una mortalità un po’ più alta. Ma il Sud Africa, che appartiene al gruppo dei Brics, non può essere certo considerato al pari degli altri Stati africani.

In questo contesto più generale, resta, infine, l’anomalia della Cina: dove tutto era cominciato. Dati imbarazzanti: appena 95 mila contagi e poco più di 4 mila e cinquecento morti. Un niente rispetto ad una popolazione di oltre 1,4 miliardi di persone. Manipolazione dei dati? Uso spregiudicato della sua forza geopolitica per conquistare ulteriori posizioni di potere a livello internazionale? Un grande complotto contro l’Occidente? Domande che al momento rimangono senza risposte, anche se pesano come pietre sugli sviluppi delle relazioni diplomatiche. Si vedrà in seguito.

Cosa si può dire, invece, fin da ora. L’ipotesi più sensata è quella legata agli sviluppi della globalizzazione. La pandemia non sarebbe altro che il risultato di quella fase caotica: in cui tutto è stato sacrificato sull’altare del dio danaro. La diffusione del morbo come conseguenza dei contatti accresciuti tra mondi diversi. Una sorta di grande mercimonio perseguito senza alcuna precauzione. Si pensi alla situazione italiana che vede una forte concentrazione dei casi proprio nei territori più legati ai processi di internazionalizzazione, come la Lombardia o il Veneto.

Non sarebbe la prima volta che questo succede. La prima globalizzazione, quella dell’inizio del ‘900 che diede forma all’imperialismo, si interruppe con le cannonate della Grande guerra. L’apice dello scontro competitivo tra le diverse potenze. Sarà stata pure una coincidenza, ma nel Natale del 1918 il virus H1N1 si manifestò per la prima volta in Spagna, dando luogo a quella influenza – la spagnola appunto – che fece milioni di morti. Anche allora la diffusione fu conseguenza del contagio che si verificò tra le forze belligeranti inevitabilmente destinate ad entrare in contatto.

La guerra pose fine alla prima globalizzazione. Gli Stati si richiusero all’interno delle proprie frontiere. Il protezionismo divenne la forma dominante della politica economica, fino a sconfinare nell’autarchia. Ci aspetta qualcosa di simile? Difficile rispondere. L’unica cosa certa è prendere atto dell’evidenza. Il mondo che fino ad un anno fa ha dominato la nostra vita non sarà più lo stesso. I rapporti economici e commerciali continueranno, ma su basi diverse e con più controlli da parte degli Stati. Non varrà più lo slogan “global è bello”. Speriamo solo che non sia sostituito dalla riproposizione di una cultura da “strapaese”. Vi fu anche questo all’indomani della Grande guerra.

Per l’Italia rimane la frontiera europea come bene da preservare. Ma anche in questo caso saranno necessari gli inevitabili cambiamenti. Nell’articolo 1 del Trattato è sancito l’impegno verso “la creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa”. Il tema dell’approfondimento fin troppo sacrificato in questi anni rispetto a quello dell’”allargamento”. Occorrerà, pertanto, recuperare il tempo perduto, dando all’Europa un profilo diverso: una maggiore coesione interna e regole democratiche che mitighino, in qualche modo, le inevitabili pulsioni egemoniche di questo o di quel Paese. Solo così sarà possibile far fronte alla crisi di quella globalizzazione, che il Covid-19 ha solo contribuito ad accelerare. E che l’annus horribilis del 2020 ha finito per certificare.


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