Finita la corrida elettorale, riecco la politica parlamentare a Washington DC. Nella sua seconda puntata sulle elezioni americane, Paolo Alli, già presidente dell’Assemblea parlamentare della Nato, spiega perché Joe Biden dovrà guardarsi più dal fuoco amico che dai Repubblicani
L’esito elettorale americano non segnerà certamente la fine dello slogan America First, ancora profondamente radicato nella metà del popolo americano. C’è tuttavia da augurarsi che Biden sappia avviare un percorso di riconciliazione che non sarà né semplice né breve, e che dipenderà molto dalla sua capacità di dialogare e di tenere a freno l’ala sinistra dei democratici, non meno estremista di Trump e desiderosa di vendette.
Biden, in altre parole, dovrà guardarsi forse più dal fuoco amico che dai repubblicani, molti dei quali – a partire da Mitt Romney, uno dei pochi ad averlo sempre esplicitato – non hanno mai sopportato gli eccessi trumpiani.
In questo senso, la vera partita si giocherà nei ballottaggi in Georgia del 5 gennaio 2021, che decideranno la maggioranza al Senato. Se la camera alta manterrà la maggioranza attuale, il primo alleato del nuovo presidente potrà essere proprio il leader dei repubblicani al Senato Mitch McConnell.
Molti osservatori, a partire dall’autorevole Financial Times, ritengono che McConnell si opporrà duramente all’agenda democratica, rappresentando un ostacolo durissimo per Biden. Ma potrebbe anche verificarsi una situazione del tutto opposta, cioè che la necessità di un accordo con i repubblicani al Senato dia al presidente la possibilità di spostare l’asse del partito democratico verso il centro, limitando le pretese egemoniche della sinistra interna.
Questa stessa situazione potrebbe, al tempo stesso, fornire l’opportunità allo stesso McConnell di prendere sempre più le distanze dall’eredità trumpiana, invisa a molti degli stessi repubblicani. Insomma, una potenziale situazione win-win per i due leader, che vantano moltissimi anni di collaborazione come senatori ed un solido rapporto di stima reciproca. Qualcuno, infatti, inizia a ipotizzare otto anni di quello che in Italia definiremmo “inciucio”. Non si può neppure escludere che il moderato Biden, dentro di sé, faccia il tifo per i repubblicani il 5 gennaio.
Se questa convergenza al centro si realizzasse da parte di entrambi gli schieramenti, si potrebbero porre le basi per un quadriennio di moderazione, sia in politica interna, sia nella presenza internazionale degli Usa, che arginerebbe anche la possibile, per quanto improbabile, ricandidatura di Trump nel 2024.
Non sarà semplice il lavoro per Biden, certamente incline ad atteggiamenti di riconciliazione anche per le sue personali inclinazioni religiose (è il primo presidente cattolico dopo Kennedy). L’arduo compito richiederà, anzitutto, iniziative che attenuino da subito le laceranti tensioni sociali che hanno caratterizzato gli ultimi mesi della vita statunitense. Il tycoon ha combattuto invano a colpi di ricorsi, nella speranza di ribaltare il verdetto delle urne, anche contro i consigli del suo staff.
Questa ostinazione da parte del presidente uscente non è spiegabile unicamente con il suo carattere e con lo stile della sua propaganda. Infatti, il venir meno dello scudo dell’immunità potrebbe far emergere scenari inquietanti per Trump, a partire dalle ipotesi di reati fiscali emerse negli ultimi mesi, sulle quali stanno indagando le procure dello stato di New York e del distretto di Manhattan.
In questo senso, egli continua a tenere alti i toni nella speranza di garantire, in qualche modo, una via d’uscita dignitosa a sé e al proprio impero finanziario. Si arriva persino a immaginare che l’ex presidente stia pensando ad una sorta di auto-perdono, non impossibile ai sensi della Costituzione degli Stati Uniti, ma che per la prima volta nella storia sarebbe applicata da un presidente a se stesso.
Dal punto di vista socioeconomico, la politica di Biden non potrà non riagganciarsi alla impostazione che fu di Obama, a partire dal ripristino, in termini magari rivisitati, dell’Obamacare nella sanità. Gli strati sociali meno difesi della popolazione si aspettano questo segnale ed è probabile che questo sarà uno dei primi interventi, destinato a tenere a bada anche l’ala della sinistra interna, che già sta scalpitando per posizionare i propri rappresentanti nei ruoli chiave del governo e dell’amministrazione.
A questo proposito, non va dimenticata la forza enorme della macchina pubblica negli Usa, certamente assai più strutturata e influente che in Italia. Essa, a differenza di quanto accade con la pubblica amministrazione italiana, dove i funzionari sono definiti burocrati, gode di una grande considerazione da parte del popolo, tanto che i funzionari sono chiamati civil servants, servitori civili.
La battaglia per il posizionamento dentro i gangli delle strutture pubbliche, resa possibile dallo spoil system, è tradizionalmente il terreno di scontro tra le fazioni interne dello schieramento vincitore. Assisteremo, nei prossimi tempi, a questa dialettica che, se ai nostri occhi può apparire lontana, è in realtà destinata a dire chi controllerà veramente il sistema.
Seconda puntata di una serie di approfondimenti sulle elezioni Usa di Paolo Alli. La prima parte si può leggere qui