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L’anno che verrà? Tutt’altro che noioso. Valori spiega perché

Un giro d’orizzonte sul futuro prossimo, dalle prospettive della Brexit, ai dossier di politica estera lasciati da Donald Trump al suo successore Joe Biden. Quello che aspetta le relazioni internazionali sarà un 2021 carico di sfide significative. L’analisi di Giancarlo Elia Valori

Herman Khan (1922-1983) è universalmente considerato il padre della “futurologia”, quella branca delle scienze politiche – inevitabilmente inesatta – che ambisce a tracciare scenari futuri e previsioni sull’evoluzione o l’involuzione delle partite geopolitiche globali e di scacchiere.

Khan era un matematico, esperto nella teoria dei giochi di simulazione e nel 1962 divenne famoso per un suo saggio intitolato “Thinking the unthinkable” (“Pensare l’impensabile”), nel quale analizzava le possibili conseguenze di un conflitto termonucleare Usa-Urss.
Il volume ebbe ampia eco sia a livello scientifico che mediatico e costò a Khan l’etichetta di “dottor Stranamore”, anche perché Stanley Kubrik confessò di essersi ispirato a lui e al suo libro per delineare il personaggio principale del suo celebre film.

Pur essendo diventato famoso per le sue teorie sulle previsioni, Khan al termine della sua carriera, nel 1980 durante un convegno alla Rand corporation di Santa Monica, gelò l’assemblea di suoi ferventi ammiratori con la seguente frase: “To predict is impossible, especially the future…”. (“predire è impossibile, specialmente il futuro”).
Se è vero quindi che chi vuole fare previsioni sugli scenari futuri deve tener presenti le teorie di Herman Khan, è altrettanto vero che la sua frase del 1980 deve essere tenuta a mente quando si analizza “ciò che verrà”.
Questa ironica precauzione ci deve accompagnare nell’analisi del futuro più prossimo, il 2021, un futuro segnato dalla pandemia e dalle sue conseguenze sociali ed economiche e da suggestive e decisive variabili e implicazioni a livello planetario.

Il nuovo anno si apre con scenari decisamente allarmanti.
In Europa il Covid-19 ha provocato non soltanto un disastro sanitario, ma anche un disastro economico le cui conseguenze si faranno sentire per anni se non per decenni.
Nel Regno Unito, mentre si avvicina – forse vanamente – l’ultima scadenza per evitare una “no deal Brexit”, un’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea senza alcun accordo con Bruxelles, è spuntato un nuovo ceppo del virus pandemico, apparentemente più infettivo di quello che circola nel resto del mondo.
Questo dato scientifico ha comportato il blocco degli spostamenti dall’Inghilterra verso tutti i paesi europei e verso molti paesi del resto del mondo.

Alla vigilia dell’uscita dall’Europa, l’Inghilterra è praticamente sotto embargo totale, come testimoniano le file chilometriche di tir bloccati su ambedue le sponde della Manica.
Non è dato sapere se questo drammatico e imprevisto sviluppo epidemico, con le sue immediate e pesanti conseguenze economiche (lockdown totale e frontiere chiuse) indurrà i negoziatori britannici alla ricerca in extremis di un accordo con l’Unione. Certo è che le ultime discussioni sui diritti di pesca nella Manica e nel Mare del nord, che per gli inglesi dovrebbero portare al bando totale dei pescherecci europei da quelle acque, non facilitano un approccio costruttivo alla ricerca di una soluzione che scongiuri il “no deal”, pur essendo chiaro a tutti che un mancato accordo produrrebbe danni su tutte e due le sponde della Manica.

In questo momento l’economia inglese è piegata dalle conseguenze della pandemia, ma è innegabile che l’impatto futuro della Brexit sulla stabilità globale del Regno Unito potrà essere pesante.
Non si tratta soltanto delle sicure ricadute sull’economia (prezzi alle stelle per i nuovi, inevitabili, dazi, crollo del valore degli immobili, crollo dei livelli occupazionali, etc.), ma anche di possibili sconvolgimenti sul piano interno: Ulster e Repubblica d’Irlanda sono decisi a mantenere aperta quella che è destinata a diventare l’unica frontiera terrestre tra Europa e Gran Bretagna.

La chiusura della frontiera con la Brexit viene vista come una iattura da tutti gli irlandesi, cattolici e protestanti.
La frontiera aperta ha fatto rinascere l’economia dell’Ulster dopo anni di depressione e di conflitto civile e aiutato la Repubblica d’Irlanda a uscire dalla crisi deli anni 2000.
Anche se, in teoria, ancora “nemici” per motivi religiosi, cattolici e protestanti irlandesi sono uniti nel tentativo di far capire a Londra che Ulster e Irlanda sono decisi a mantenere aperto il confine ora che gli odii religiosi si sono attenuati e il legame degli unionisti protestanti con la madrepatria inglese viene messo in crisi dalla Brexit.

Anche la Scozia dà segni di irrequietezza non trascurabili.
Gli scozzesi al referendum sull’Europa hanno votato in massa per il “remain” e non sembrano disposti a pagare le conseguenze dell’uscita dall’Europa.
All’indomani del referendum la premier scozzese Nicola Sturgeon dichiarò: “noi scozzesi siamo molto arrabbiati perché ci siamo sempre opposti alla Brexit. Rabbia e tristezza devono darci ancora più forza per conquistare l’indipendenza. E accadrà, vedrete. È solo questione di tempo…”.

Nel prossimo mese di maggio in Scozia si terranno le elezioni generali e la Sturgeon ha ribadito nei giorni scorsi che se il suo partito, lo Scottish national party, vincerà le elezioni, ”sarà con la promessa che gli scozzesi potranno votare per un referendum sull’indipendenza”.
Per ribadire la propria distanza da Londra, che sta già mettendo i bastoni tra le ruote alle centinaia di migliaia di europei che lavorano stabilmente in Gran Bretagna, la premier scozzese ha scritto una lettera aperta ai cittadini d’Europa che vivono in Scozia nella quale li invita a non abbandonare la Scozia, ”la Scozia è casa vostra, qui siete i benvenuti, vogliamo che voi rimaniate …siete nostri amici, familiari e vicini di casa… vi aiuteremo a far valere i vostri diritti”.

Parole chiare che sembrano foriere di tempesta politica per Londra, che nell’anno che sta per cominciare si troverà ad affrontare non solo i danni della pandemia, ma i contraccolpi economici di una Brexit non concordata e quelli politici provenienti da Scozia e Irlanda.
Un situazione che potrebbe sfociare nella messa in discussione dell’essenza e dell’integrità di un “Regno” non più “unito” e della filosofia esistenziale di un popolo ostinatamente isolano, educato anche da detti popolari del tipo: “Tempesta sulla Manica. Il continente è isolato”.

Nel 2021, però, “l’isolamento” del continente potrebbe costare molto caro ai sudditi di Sua maestà.
Sulle altre sponde dell’Atlantico, la presidenza Biden porterà sicuramente a una decisa inversione di marcia rispetto alle tendenze isolazioniste di Donald Trump, tendenze che tuttavia non hanno impedito al presidente uscente di mettere a segno uno dei colpi più significativi della politica estera americana degli ultimi anni: il riavvicinamento di Israele con il mondo arabo pianificato e realizzato da Trump con il sostegno attivo del principe della corona saudita, Mohammed Bin Salman.

È questa forse l’eredità più pesante lasciata a Joe Biden da Donald Trump.
Un’eredità con la quale la nuova amministrazione di Washington dovrà fare attentamente conto se vuole riassumere il ruolo di grande potenza che il disimpegno di Obama e gli errori della Clinton e di Kerry le avevano fatto perdere in Medio oriente.

Anche se nell’agenda della nuova Casa bianca di Joe Biden figura al primo posto la ridefinizione dei rapporti con la Cina, dopo che Trump – accontentandosi di riequilibrare con i dazi l’interscambio con Pechino – ha di fatto lasciato campo libero ai cinesi in Africa e in estremo oriente, il rapporto con l’Arabia Saudita deve necessariamente essere ridefinito se gli Stati Uniti vogliono tornare a giocare un ruolo significativo negli equilibri (e negli squilibri…) mediorientali.

Da Riad si apprende che l’esito delle elezioni presidenziali americane sta suscitando preoccupazioni negli ambienti di corte.
Il re, Salman Bin Abdelaziz, è ben conscio dell’ostilità della componente democratica del Congresso nei confronti del regno e dello spregiudicato attivismo del principe ereditario Bin Salman, che è stato esplicitamente accusato di essere il mandante dell’assassinio del giornalista dissidente, Jamal Kashoggi, all’interno dei locali dell’ambasciata saudita in Turchia il 2 ottobre del 2018.

Molti deputati e senatori democratici stanno facendo pressioni congressuali per sostenere il varo di sanzioni “ad personam” nei confronti di esponenti significativi dell’entourage del principe della corona.
Inoltre è aperto il delicato dossier del destino dell’ex ministro dell’interno saudita, il principe Mohammed Bin Najef, e del suo stretto collaboratore Saad Al Jabri, ambedue fuggiti negli Stati Uniti per evitare l’arresto con l’accusa di corruzione.

Le accuse riguardano una serie di contratti “sospetti” con aziende americane siglati da Bin Najef su suggerimento di Al Jabri. Quest’ultimo era un collaboratore della Cia che attualmente lo copre e lo mantiene in una località segreta della Virginia.
I sauditi sanno bene che la Cia protegge a oltranza i propri collaboratori e che quindi eserciterà tutta la sua influenza sulla nuova amministrazione per evitarne l’estradizione in Arabia Saudita.
Anche se Biden, durante la campagna elettorale si è espresso molto duramente nei confronti del regno saudita, a Riad ricordano che da vice presidente di Obama il nuovo inquilino della Casa Bianca non aveva mai dimostrato di essere ostile nei confronti dello Stato più potente del Golfo Persico.

Secondo attendibili fonti diplomatiche, il re Salman sarebbe molto attento nei confronti del nuovo approccio di Washington verso Riad, al punto che, pur di mantenere aperto il dialogo con gli americani, sarebbe addirittura disposto a sacrificare il principe della corona qualora questi dovesse rappresentare un ostacolo all’avvio di un dialogo costruttivo con la nuova amministrazione americana.
Non è un segreto che il re non è rimasto affatto contento dell’attivismo di Mohammed Bin Salman nei confronti di Israele e del suo impegno per favorire l’apertura di rapporti diplomatici tra Gerusalemme e Bahrein, Emirati e Sudan.

È chiaro che un ridimensionamento del principe della corona non potrebbe non avere effetti negativi o paralizzanti nei riguardi del nuovo corso delle relazioni arabo-israeliane, un nuovo corso al quale guarda con favore anche la nuova amministrazione Biden.
Come si vede non sono semplici i dossier che Trump lascia in eredità al suo successore. Degli altri ci occuperemo in altra occasione.
Quello che è certo è che, pur tenendo conto della prudenza “previsionale” di Herman Khan, l’anno che verrà, sotto il profilo della geopolitica, sarà tutt’altro che noioso.

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