La Chiesa è a favore di un regime di proprietà privata, non però di un regime di proprietà privata qualsiasi. Il Vangelo ci pone in guardia dall’attaccamento ai beni, ci sprona a soccorrere i fratelli in difficoltà e ci indica la povertà, sia spirituale che materiale, come via privilegiata per il Regno dei Cieli. L’analisi di Rocco D’Ambrosio, presbitero della diocesi di Bari, ordinario di Filosofia Politica nella facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana di Roma
Ormai è un classico: tutte le volte che i pontefici parlano di limiti della proprietà privata diventano comunisti o socialisti o pauperisti e così via. E non solo i papi, ma anche i vescovi e i preti, i fedeli laici. Per restare agli ultimi pontefici, sono stati accusati di “comunismo” Giovanni XXIII per la “Mater et magistra”, Paolo VI per la “Populorum progressio”, Giovanni Paolo II per la “Centesimus annus”, Benedetto XVI per la “Caritas in vertitate”. L’ultima occasione per reiterare l’accusa è stata l’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco, dove, citando Giovanni Paolo II (Centesimus annus, 31), scrive: “La tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata” (Fratelli tutti, 120). Si tratta del principio della destinazione universale dei beni, cioè i beni terreni sono destinati a tutte le persone. Il principio fa parte della tradizione cristiana da sempre, ha radici nelle Scritture ebraiche, e viene riaffermato senza soluzione di continuità. Ovviamente bisognerebbe conoscere le fonti prima di esprimersi; ma la ricerca delle fonti è uno sport poco praticato in Italia, specie in alcuni ambienti istituzionali.
Nel libro della Genesi si racconta che il Signore Dio affida alla persona umana il creato (Gen. 1,26), di cui il salmo 8 afferma: “Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi. Tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie del mare”. Oltre ai tanti riferimenti biblici, vanno ricordati gli interventi dei diversi padri della Chiesa (papa Francesco cita Giovanni Crisostomo, Basilio, Gregorio Magno e altri, FT, n. 119); i testi dei pontefici nelle encicliche sociali, dove, prima di tutto si precisa che i beni sono “per” la persona umana. Essi servono a ogni uomo e donna per svilupparsi e crescere armonicamente in tutte le facoltà. Per questo motivo la Scrittura parla di dominio, così facendo indica una gerarchia (la persona umana è prima di tutte le cose) e un servizio (le cose servono alle persone). Preciso che il dominio è da intendersi in maniera “mite”, quindi dovremmo parlare di un “buon governo del creato” nello stile di Dio, che sempre manda il suo Spirito “a rinnovare la terra” (Sal 108) e che sempre apre la sua mano e “sazia il desiderio di ogni vivente” (Sal 145).
I beni, quindi, sono a servizio di tutti. Questa affermazione risulta molto importante in una formazione cristiana completa e matura. Essa ci fa comprendere come la nostra riflessione e il nostro impegno devono mirare a fare in modo che tutte le persone possano partecipare, usufruire e godere dei beni creati. Il cammino storico ha portato a diverse soluzioni in materia: si pensi alle diverse forme di liberalismo o comunismo. Si deve anche precisare che detto principio, per noi cristiani, non parte da situazioni, scelte e ideologie contingenti ma dalla stessa Parola di Dio. Sulla base della tradizione si deve affermare che la destinazione universale dei beni è necessaria e irrinunciabile, cioè è un comando di Dio valido sempre e ovunque.
La Chiesa cattolica afferma questo principio unitamente a quello della proprietà privata. Sembrerebbe che i due principi si oppongono l’un l’altro. Invece no, perché “ogni proprietà privata ha per sua natura anche un carattere sociale, che si fonda sulla comune destinazione dei beni. Se si trascura questo carattere sociale, la proprietà può diventare in molti modi occasione di cupidigia e di gravi disordini, così da offrire facile pretesto a quelli che contestano il diritto stesso di proprietà” (Gaudium et Spes, 14).
In altre parole la Chiesa è a favore di un regime di proprietà privata, non però di un regime di proprietà privata qualsiasi, bensì verso un regime di proprietà privata ben determinato riguardo alle ragioni, riguardo alla quantità e alla qualità dei beni da possedere privatamente, riguardo alle persone chiamate a possedere in privato e, soprattutto, riguardo all’uso dei beni che si posseggono privatamente.
Si deve anche dire che non è solo un problema di quantità dei beni che possiedo, ma anche un problema di “come li possiedo”. Il Vangelo ci pone in guardia dall’attaccamento ai beni, ci sprona a soccorrere i fratelli in difficoltà e ci indica la povertà, sia spirituale che materiale, come via privilegiata per il Regno dei Cieli (Mt. 5,3; Lc. 18,18-25). Infine non dimentichiamo l’esempio della comunità apostolica: il “mettere in comune” (cfr. At. 2,42-48), come segno esteriore della piena comunione di vita e di fede, è sempre valido per la nostra vita familiare, ecclesiale e sociale. Nel momento in cui si conciliano questi principi, insieme a quello della carità e della giustizia, ci si accorge come non è lecito possedere tutto e sempre, ma è lecito possedere quello che serve allo sviluppo armonico della mia persona (e della mia famiglia) senza dimenticare gli altri, specie i poveri, i disoccupati, i migranti.
A margine va anche ricordato, ai semplici cittadini italiani come a politici e membri delle istituzioni pubbliche, che a riflettere sulla natura e sui limiti della proprietà non è solo la tradizione cristiana ma anche quella laica. La nostra Costituzione parla di una “funzione sociale della proprietà” (art. 42), che di fatto non assolutizza il principio della proprietà privata ma lo inserisce in un progetto di “solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2) per renderla “accessibile a tutti” (art. 42).
Ma forse il problema, oltre che di poca conoscenza delle fonti, è anche di prassi personale e sociale. Quella a cui si riferiva Tonino Bello quando affermava che “non sono i coperti che mancano sulla mensa; sono i posti in più che non si vogliono aggiungere a tavola”.