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Dalle crisi alle riforme. Sacconi racconta come reinventare lo Stato

Pubblichiamo un estratto del libro di Maurizio Sacconi, “Volevo solo una girandola – Racconti brevi di vita pubblica” (Marsilio) tratto dal capitolo “Come usare le situazioni di crisi per fare le riforme”

Gli stati di crisi sono propizi per le riforme che in condizioni ordinarie trovano resistenze insuperabili. La società risulta più aperta al cambiamento nella speranza che la discontinuità produca soluzioni efficaci. La loro qualità si misura dalla loro sostenibilità nel ritorno alla normalità. Occorre tuttavia un ceto politico pronto a sacrificarsi per lasciare un’impronta indelebile grazie ai risultati che con il tempo potrebbero essere apprezzati.

Il mio ruolo accanto al presidente sembrava preludere all’incarico di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ma, all’ultimo momento, Craxi intervenne in favore di una persona (ritenuta) più fidata. Così Amato mi disse che, avendo avuto io l’idea di controllare la spesa anche attraverso una riforma del pubblico impiego, avrei dovuto assumere la guida politica del dipartimento della funzione pubblica con il rango di sottosegretario in un gabinetto composto di soli undici ministri. Delegato direttamente dal presidente del Consiglio, assunsi così funzioni e ufficio a Palazzo Vidoni, proponendomi un obiettivo più ambizioso del mandato ricevuto. Pensai infatti che una nuova regolazione in senso “privatistico” del lavoro pubblico, quale era stata avviata da un precedente accordo con le organizzazioni sindacali, dovesse collocarsi in un radicale ripensamento, altrettanto “privatistico”, del funzionamento dello stato. La prospettiva più ampia in questo caso è stata inserita negli stessi provvedimenti di attuazione e ha sufficientemente retto negli anni al logorio di una legislazione torrenziale che tutti i successori vollero produrre, nell’illusione di affidare alla norma il risultato del buon governo.

Partiti insomma dall’immediato obiettivo di sottoporre a rigido controllo l’andamento dei costi effettivi dei rinnovi contrattuali, con l’aiuto di una validissima squadra di dirigenti dello stato, decidemmo innanzitutto di riorientare le amministrazioni pubbliche “dagli atti ai fatti”, “dal procedimento ai risultati”. Muovemmo dalla constatazione della crescente competizione tra sistemi-paese per la quale risultava influente anche il grado di efficienza ed efficacia delle funzioni pubbliche. Fummo certamente aiutati da un clima globale nel quale, ove più ove meno, da un lato si affermavano mercati aperti e, dall’altro, gli stati si adoperavano per sostenerli con regole e servizi di qualità. Non a caso, poco dopo, l’amministrazione federale americana fu oggetto di una riforma promossa dal vicepresidente Al Gore che fu intitolata “From red tape to results”, dal nastrino rosso (indicativo dei faldoni di pratiche) ai risultati. Non si trattava di trascurare i caratteri di trasparenza, imparzialità e legittimità degli atti amministrativi, ma di garantirne simultaneamente la finalizzazione a concreti obiettivi.

Anzi, la rivoluzione informatica, cui dedicammo una specifica autorità per accelerarla, avrebbe dovuto consentire la reingegnerizzazione dei singoli procedimenti in termini di maggiore semplicità e velocità. Immaginammo quindi di adottare, per quanto compatibili, i criteri della scienza aziendale nella convinzione che questa propende naturalmente a evolversi nella ricerca continua della maggiore efficienza, a differenza del diritto amministrativo che rimane ancorato alle radici nazionali ed è tendenzialmente autoreferenziale. A questi criteri ispirammo quindi la riforma della dirigenza, rendendola autonoma rispetto alla funzione politica. Questa avrebbe dovuto “limitarsi” a definire indirizzi e obiettivi mentre la dirigenza avrebbe avuto il compito della loro attuazione amministrativa. La separazione delle funzioni avrebbe esaltato la responsabilità di ciascuno. Molti pensarono fosse un modo di rispondere alla tempesta giudiziaria con una riduzione del potere politico ma in realtà posso garantire, con la testimonianza di molti collaboratori, che la soluzione mi fu indicata dalla mia esperienza al Tesoro. Lì avevo il compito di apporre la mia firma a un’enorme quantità di atti relativi a singoli finanziamenti dopo una serie di “bollinature” relative a ciascuna fase del procedimento. Mi sarebbe stato impossibile ripercorrere l’iter di ciascun atto e se lo avessi fatto a campione sarebbe potuta diventare sospetta la ragione della scelta. Quegli atti si compivano effettivamente attraverso un percorso gestito da funzionari e dirigenti cui mi limitavo ad aggiungere una sorta di copertura politica. Strettamente correlata con l’autonomia responsabile della dirigenza fu poi la decisione di introdurre nelle pubbliche amministrazioni la contabilità economico-patrimoniale analitica per centri di costo. Riconciliata doverosamente con la contabilità finanziaria, questa avrebbe in più consentito di quantificare gli obiettivi, di verificarne gli esiti, di effettuare comparazioni interne al sistema pubblico, di motivare la dirigenza a operare secondo costi operativi contenuti.

Ulteriore corollario “aziendalistico” sarebbero infine stati due moduli di valutazione, uno interno e l’altro esterno, di carattere sostanzialistico e quindi a posteriori. Tutto il tradizionale controllo, come sappiamo, era stato sino ad allora formalistico e preventivo. Ecco che, in questo contesto e in questa prospettiva, la trasformazione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, con l’eccezione di quelle “d’ordine”, non si sarebbe risolta nel passaggio del contenzioso dalla giustizia amministrativa a quella lavoristica. Immaginammo così anche relazioni industriali di tipo normale, quali sarebbero state garantite da dirigenti finalmente diventati “buon datore di lavoro”, uscendo dalle pratiche collusive del passato. Le cose non sono poi andate per il verso auspicato. Se larga parte di questi principi sono, almeno sulla carta, sopravvissuti, i ministri che mi hanno via via sostituito hanno quasi sempre ceduto alla tentazione di un ritorno alla dimensione pubblicistica, al formalismo dominante su ogni attesa di risultati, alla centralità del procedimento “a prescindere”, alla prevalenza della contabilità finanziaria, ai controlli preventivi. La stessa dirigenza, che pure ha conservato in teoria la propria autonomia responsabile, è stata via via condizionata dall’applicazione, oltre alle figure apicali, di logiche di spoils system e da nomine discrezionali e indipendenti da ogni criterio di valutazione oggettiva.

Quanto alla contabilità economico-patrimoniale, ove sistemica, questa avrebbe messo a nudo almeno le inefficienze relative per cui è stata largamente rifiutata. Ora la Commissione Europea ha chiesto ai paesi membri di adottarla entro il 2025. Ma la novità fondamentale rispetto a diciotto anni fa consiste nella rivoluzione cognitiva che, se applicata allo stato in tutte le sue articolazioni, dovrebbe consentire di reingegnerizzare non più i soli processi (cosa peraltro non accaduta) ma soprattutto le stesse grandi funzioni pubbliche. Possiamo senza esagerazione pensare al “reinventing government” di cui a un noto saggio americano.

Ridisegnare il perimetro pubblico, consegnare funzioni alla società e ai suoi corpi intermedi, articolare in modo più snello e funzionale i compiti dello stato, utilizzare ed elaborare quel grande patrimonio di big data che è nella pancia delle amministrazioni, anche se ogni giorno ci è richiesto di dare informazioni sul nostro codice fiscale o sulla tessera sanitaria. Certo, l’invenzione dell’anac e la redazione del nuovo codice degli appalti si muovono nella direzione opposta, perché assumono il presupposto che i comportamenti patologici si combattano accentuando procedimenti e certificazioni formali. Ma voglio immaginare che, quando si dovesse esaurire questa stagione della politica debole, qualcuno vorrà riprendere, più che il merito, il metodo che allora seguimmo. Quello di immaginare uno stato al servizio della società, non il contrario.


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