Con Giuseppe Dalla Torre, già presidente del Tribunale della Città del Vaticano e rettore magnifico della Lumsa, scompare uno degli esempi contemporanei più virtuosi di razionalità illuminata dalla fede che il mondo cattolico, specialmente nelle condizioni attuali, non può permettersi di dimenticare. Il ricordo di Nico Spuntoni
La scorsa settimana è scomparso Giuseppe Dalla Torre Del Tempio di Sanguinetto, già presidente del Tribunale della Città del Vaticano nonché rettore magnifico della Lumsa e tanto altro ancora. La sua è stata una vita al servizio della disciplina canonistica e della Chiesa.
Esponente di una famiglia legata da tre generazioni ai papi, Dalla Torre ha rappresentato una delle figure più alte di protagonisti laici nella vita della Santa Sede. Tutta l’attività del grande giurista, figlio dell’ex direttore generale dei Musei Vaticani e nipote dell’indimenticato direttore dell’Osservatore Romano tra il 1920 ed il 1960, è una prova di quella “sintesi eccezionale” fra fede e ragione che San Giovanni Paolo II amava attribuire a San John Henry Newman.
Dal nonno, odiato dal regime di Mussolini per aver dato ospitalità sul quotidiano vaticano a nomi scomodi dell’antifascismo cattolico, ereditò il talento di una penna comprensibile a tutti rintracciabile, oltre che sulle numerose pubblicazioni scientifiche, anche negli editoriali firmati in questi anni per Avvenire“. I suoi interventi su temi di grande attualità si distinguono per chiarezza ed autorevolezza e sono frutto di valutazioni fatte per lo più dal punto di vista giuridico, mai distaccate dalla realtà culturale e sociale che prendono in considerazione e attente soprattutto alla questione del disancoraggio della legislazione civile dalla norma morale. Dalla Torre era solito sollevare il problema delle società secolarizzate dove Cesare si prende quel che è di Dio e dove, dunque, si afferma la pretesa di forgiare la norma morale mediante la legge positiva.
Per scongiurare questo scenario, il professore amava presentare come contraltare la “sana laicità” costituita dalla “collaborazione tra Chiesa e Stato, ciascuno per quanto di propria competenza e senza confusione di ruoli, diretta a perseguire il bene di quella persona umana cui l’una e l’altro sono a servizio”. Un papalino, dunque, estraneo a posizioni confessionali o ideologiche e che come modello indicava quello fino ad oggi vigente negli Stati Uniti per “il fatto che il regime di piena libertà, anche in materia religiosa, da sempre caratterizzante la grande democrazia nord americana, non ha ostacolato ma invece favorito la missione della Chiesa in quel Paese” e “la rigida separazione tra istituzioni pubbliche e istituzioni religiose, cui il suo ordinamento si ispira, non è stato in alcun modo di ostacolo al fenomeno religioso”.
La sua strenua difesa della sana laicità contrapposta al laicismo lo avevano portato di recente ad esultare per la sentenza del Consiglio di Stato francese in difesa della libertà di culto, elogiandola come una prova di “laicità che riafferma con vigore la spettanza a Cesare di quel che è di Cesare, ma che al contempo non solo riconosce la incompetenza dello Stato in ciò che appartiene a Dio, ma ammette che le istituzioni pubbliche, nel rispetto della reciproca autonomia, debbano creare le condizioni – innanzitutto giuridiche, perché le istituzioni religiose facciano la parte che a esse compete”.
La sua lezione sulla sana laicità appare particolarmente attuale in questo periodo ed esorta a dire “no al confessionismo di Stato; ma no pure allo Stato etico o ideologico” che può “significare ignoranza della religione e sua riduzione nel privato o, peggio, nel chiuso della coscienza individuale”.
Con Giuseppe Dalla Torre scompare uno degli esempi contemporanei più virtuosi di razionalità illuminata dalla fede che il mondo cattolico, specialmente nelle condizioni attuali, non può permettersi di dimenticare.