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Difesa a stelle e strisce. Dal Congresso messaggi (forti) per Trump e Biden

Messaggio da Capitol Hill contro i colpi di coda di Trump. I repubblicani sostengono il maxi budget per la Difesa (741 miliardi) garantendo una maggioranza che permetterebbe di superare il veto già minacciato dal presidente uscente. Nel frattempo, anche Biden ha difficoltà con la scelta di Lloyd Austin al Pentagono

Si infiamma la Difesa a stelle e strisce. Mentre le indiscrezioni sulla scelta di Joe Biden per il generale Lloyd Austin alla guida del Pentagono hanno alimentato un dibattito bipartisan, tanto da far presagire un possibile cambio di rotta per il presidente eletto, la Camera ha approvato ieri il maxi budget per la Difesa del 2021: 741 miliardi di dollari. Fondi e programmi del National defense authorization act (Ndaa) erano già noti, frutto di una non facile negoziazione tra i due rami di Capitol Hill. La vera notizia è l’ampia maggioranza con cui il bill è stato approvato: 335 voti a favore contro 78 contrari. Il segnale è tutto per Donald Trump.

IL DIBATTITO TRA I REPUBBLICANI

Il presidente uscente aveva minacciato di porre il veto in caso fosse stata conservata la disposizione che impone il cambio di nome alle basi militati intitolate ai comandanti confederati. La disposizione è stata conservata, ma il superamento dei due terzi alla Camera permetterebbe (se replicato) di forzare l’eventuale veto presidenziale. Il messaggio politico è forte, soprattutto in campo repubblicano, con il presidente che appare sempre più isolato. “Spero che i repubblicani voteranno contro un Ndaa molto debole, a cui apporrò il veto”, ha twittato Trump poco prima del voto a Capitol Hill.

LE RAGIONI DI TRUMP

Secondo il presidente, la debolezza dell’Ndaa è in tre punti: il cambio di nomi alle basi confederate; il tetto ai ritiri tra Germania e Corea del sud; e la mancata abrogazione delle Section 230, cioè lo scudo legale per i social media. Eppure, solo 40 tra oltre 190 repubblicani hanno seguito le indicazioni del presidente. Pur concordi con l’abrogazione della Section 230, molti di loro hanno trovato una forzatura la proposta di inserirlo nella legge che consente i finanziamenti militari.

I PROBLEMI DI BIDEN

In ambito democratico, anche Joe Biden registra però qualche difficoltà. Ieri sono emerse le prime indiscrezioni sulla nomina per il generale Lloyd Austin III quale prossimo capo del Pentagono. Essendosi ritirato dal servizio attivo nel 2016, l’ex capo dello US CentCom non ha però i sette anni dal congedo richiesti dalla legge per poter assumere posizioni di vertice al Pentagono. E così, sarebbe necessario il “waiver”, cioè il passaggio sia alla Camera sia al Senato, e poi la firma del presidente. Sono bastate però le indiscrezioni di Politico e Cnn sull’imminente scelta di Biden per alimentare il dibattito politico, con conseguente conta dei voti al Congresso. C’è il rischio che Austin non ce la faccia, complici l’opposizione repubblicana e la tradizione democratica, abituata a lottare per la separazione tra le cariche militari e civili.

LE DIFFICOLTÀ PER AUSTIN

Quattro anni fa, quando il generale James Mattis fu scelto da Donald Trump per il Pentagono, ottenne il via libera solo grazie a un profilo davvero molto elevato e un apprezzamento bipartisan per i suoi ultimi anni di servizio. Eppure, 17 democratici al Senato votarono contro, compresi quattro attuali membri della commissione Armed services, sollevando questioni di principio (e non sulla persona) relative al controllo civile del Pentagono. In più, nei quattro anni di presidenza Trump, i deputati dem si sono spesso scagliati contro le nomine militari del presidente repubblicano. Biden sentirebbe tale peso, soprattutto dall’ala più a sinistra del partito (Bernie Sanders si oppose con forza a Mattis).

IL PROFILO DI AUSTIN

Austin ha il curriculum operativo di generale quattro-stelle, ma probabilmente non il peso giusto a Washington per passare indenne un contesto in fibrillazione, né la caratura politica, come tra l’altro scrive sul Washington Post David Ignatius. Della stessa opinione Jim Golby, già consigliere per lo stesso Biden all’epoca della vice presidenza, che scrive sul New York Times: “Scusi, generale Austin, ma un generale ritiratosi da poco non dovrebbe diventare segretario alla Difesa”. E così anche altri, pure tra le fila dei democratici, a rispolverare questioni di principio. Comandante del CentCom dal 2013 al 2016, già sottocapo dello US Army con ampia esperienza in Medio Oriente, negli ultimi anni si è dedicato al settore privato, come membro (tra gli altri) del consiglio di amministrazione di Raytheon, uno dei campioni dell’industria Usa della Difesa.

TORNA LA FLOURNOY?

E così, se dovesse saltare l’ipotesi Austin, per Biden potrebbe riaprirsi la corsa per il segretario alla Difesa. Fino a un paio di settimane fa sembrava scontata la nomina per Michele Flournoy, fondatrice del Cnas con diversi incarichi apicali tra Clinton e Obama, e molteplici legami tra think tank e apparati militari, ben inserita nell’establishment di Washington. La strada al Pentagono per lei sembrava spianata, ma poi è aumentata la pressione del Black Caucus del Congresso, lamentatosi per le “troppe facce bianche” nel team per la sicurezza nazionale.

ALTRI CANDIDATI?

Senza Austin, con la Flournoy, Biden perderebbe il primato di aver scelto il primo capo del Pentagono afro-americano, ma guadagnerebbe quello per la prima donna. Nel caso in cui propenda per la prima opzione, era considerato in lizza anche Jeh Johnson, che fu già nel 2013 il primo segretario alla Sicurezza interna, scelto allora da Barack Obama. Più defilata c’è anche la candidatura della senatrice dell’Illinois Tammy Duckworth, veterano della guerra in Iraq, dove ha servito come pilota di elicotteri per lo US Army, rimanendo gravemente ferita. Ha origini thailandesi.

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