Il 4 dicembre 1970 usciva il film “Il giardino dei Finzi-Contini” di Vittorio De Sica, dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani, premio Viareggio 1963. L’adattamento, secondo lo scrittore, tradiva lo spirito della sua opera. Ma gli americani lo premiavano con l’Oscar per il miglior film straniero. Opera mediocre o capolavoro? Lo storico del cinema Eusebio Ciccotti ripercorre la vicenda per Formiche.net
La diatriba se il film tratto da un testo letterario sia fedele o infedele inizia con la storia del cinema. Di volta in volta, i difensori dell’opera ipotestuale (quella da cui si parte: il testo letterario) non accettano che l’“opera di arrivo” (qui il film) sia troppo diversa dall’originale.
Negli anni, per evitare code penali, si sono trovate, da parte dei produttori cinematografici, formule quali, “tratto da”, “tratto liberamente da”, “ispirato a”. Nella nostra cineteca mentale sfilano film che hanno “superato” in qualità il testo letterario di partenza (si pensi agli ottimi “adattamenti” filmici di Alfred Hitchcock ˗ alcuni sono indiscussi capolavori, come Vertigo, 1958 ˗, tratti da racconti/romanzi di dignitoso livello; o a Ladri di biciclette, 1948, di Vittorio De Sica, da un tiepido racconto di Luigi Bartolini; o a Rashomon di Akira Kurosawa da due rispettabili racconti, fusi insieme).
Altre volte, le trasposizioni hanno generato contenute delusioni, come Senilità (1962) di Mauro Bolognini, da Italo Svevo. Spesso, invece, il livello cinematografico è stato all’altezza del capolavoro letterario: mi limito a tre eccellenti traduzioni nel cinema e nella tv italiani: Odissea (1968) di Franco Rossi, da Omero; Il gattopardo (1963) di Luchino Visconti e Il deserto dei Tartari (1976) di Valerio Zurlini, rispettivamente da Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Dino Buzzati. Per esiti altrettanto superlativi nel cinema europeo si può pensare a Ordet di C. Th. Dreyer, da un testo teatrale di Kay Munk, e a Oblomov(1979) di Nikita Mikalkov, da Ivan Gončiarov. Sa andassimo in Usa ci verrebbe subito in mente Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) di Milos Forman da Ken Kesey. Ognuno ha i suoi esempi.
I LIMITI DEL TRADIMENTO FILMICO
Naturalmente il testo filmico è un testo autonomo, e non possiamo chiedere che rispetti in ogni sua sezione l’ipotesto. Gli autori della sceneggiatura di un “tratto da”, in accordo con il regista, sovente inseriscono delle varianti. Di fronte all’accusa di “tradimento” avanzata dagli scrittori o drammaturghi, gli sceneggiatori e i registi replicano che si è mantenuto lo “spirito del testo letterario”. Si è data, chiosano, una interpretazione nel nuovo testo filmico, che per sua natura è indipendente. Un testo di arrivo che, per un patto tacito con il destinatario, deve, comunque, trasmettere il “messaggio” del testo di partenza, altrimenti non avrebbe senso la dicitura “tratto da”. Umberto Eco, nel 1980, parla dei “limiti dell’interpretazione”. Ossia se un testo mi racconta la storia di Pinocchio, sto semplificando, non posso trasformarlo, “interpretandolo”, facendogli narrare la vicenda dei fratelli Karamazov.
GIORGIO BASSANI VS VITTORIO DE SICA-UGO PIRRO: IL GIARDINO CONTESTATO
Nel dicembre del 1970 esce in sala Il giardino dei Finzi-Contini di Vittorio De Sica, sceneggiatura di Ugo Pirro, tratto dal romanzo di Giorgio Bassani, edito nel 1962 e premio Viareggio 1963. Lo scrittore ferrarese ritiene che il film abbia travisato la sua opera e scrive una dettagliata lettera di protesta, pubblicata dall’Espresso. Racconta la genesi del progetto in cui era anch’egli co-autore. Il film doveva essere diretto da Valerio Zurlini, su sceneggiatura di Vittorio Bonicelli e dello stesso scrittore. Poi, passano degli anni, si affastellano vicissitudini produttive e organizzative, portando la sceneggiatura attraverso la revisione ad opera di un terzo autore-sceneggiatore, Ugo Pirro. Lo scrittore non fu mai contattato da Ugo Pirro. La regia affidata a Vittorio De Sica. Dopo la visione del film, continua Bassani nella sua lettera, tramite il suo avvocato, fa ritirare il suo nome dai titoli di testa in quanto co-autore della sceneggiatura. Poi, sempre nella sua missiva, Bassani passa ad analizzare le “libertà” che il film si era preso travisando lo spirito del romanzo.
“TRADITO IL PERSONAGGIO DI ALBERTO. INESATTEZZE STORICHE”
Giorgio Bassani sottolinea, tra le diverse varianti filmiche tutte tese a banalizzare lo spirito del romanzo, “con interpolazioni didascaliche”, come al personaggio di Alberto (il fratello malato di Micòl: è Helmut Berger), per esempio, venivano messe in bocca delle frasi per trasformarlo “in verboso illustratore della propria nevrosi”. Aggiungeva, inoltre, che i fatti storici, erano non corretti: “in Italia prima dell’8 settembre 1943 la caccia all’ebreo non fu mai praticata (…) che l’arresto di Giorgio Lattes (l’innamorato di Micòl, l’io narrante del libro, n.d.r.), in un cinema (!), subito dopo la battaglia di Tunisia, non presentava nessun carattere di credibilità”.
In effetti Bassani ha in parte ragione sulle inverosimiglianze storiche. Ma l’errore da lui sottolineato non è gravissimo: la didascalia iniziale del film, del resto, recita “Ferrara 1938-1943”. Quindi se nel film Giorgio Lattes viene arrestato per esser deportato, alla fine dell’estate 1943, mentre in realtà tutte le famiglie ebree di Ferrara furono deportate dal novembre 1943, l’inesattezza cronologica è, appunto, lieve. Non siamo in un documentario. È importante che quel tema, rimosso dalla cultura e dal cinema, e quindi dalla memoria collettiva, tramite attori molto conosciuti (Dominique Sanda, Lino Capolicchio, Romolo Valli, Fabio Testi, Helmut Berger), in quegli anni, arrivasse al grande pubblico.
UN FILM ANCORA ATTUALE
Del resto, rimanendo sull’aspetto estetico sollevato da Bassani, anche la soluzione narrativa dell’arresto di Giorgio al cinema appare simbolicamente riuscita: il regime uccideva non solo le persone ma anche l’arte. Va notato, a eventuale difesa del film, che il ritmo registico di De Sica regge il tempo. Mai si sofferma troppo su una scena; altre scene inoltre sono tagliate in forma anacolutica, fraseggio tipico del cinema del terzo millennio, invitando così lo spettatore a terminare l’azione sospesa nella propria testa. La chiusa in flashback, dei ragazzi (oramai deportati o morti: Micòl, Alberto, Giampiero Malnate e Bruno), che giocano a tennis, al ralenti, apparve troppo hollywoodiana e ruffiana ai critici duri e puri anni Sessanta, mentre, rivedendola oggi, mantiene intatta tutta la sua carica emotiva.
UN OSCAR MERITATO
Il giardino dei Finzi-Contini, stroncato dalla critica militante (lo difese solo Tullio Kezich), convinceva invece la giuria hollywoodiana per un semplice motivo che il pubblico percepisce immediatamente: la vicenda di quel gruppo di giovani amici, lineare e chiara, parlava di una tragedia storica che si sovrapponeva al disagio esistenziale tipico di ogni età ed epoca. La sceneggiatura di Ugo Pirro, checché ne dicesse Giorgio Bassani, parlava il linguaggio del Novecento esistenzialista. La regia di De Sica, in punta di piedi, senza debordare, lavorava sui primissimi piani della Sanda e di Capolicchio, ma anche sui piani medi del campo da tennis, con i giovani che cercano di non pensare alle nubi che si addensano sulla Storia dell’Europa. Le inquadrature degli alberi, l’attenzione alla natura, da qualcuno furono lette come sdolcinatura romantica; la calda fotografia di Ennio Guarnieri da altri scambiata per lezioso colorismo; gli inevitabili zoom (codice tipico degli anni Sessanta), e il non ricorrere al piano-sequenza amato dalle nouvelles vagues europee, presentavano De Sica, agli occhi dei nuovi critici, come autore dalla regia superata. I nuovi autori-mito della critica militante erano Bertolucci, Pasolini, Godard, Oshima, Bellocchio, Jancsó e Scorsese. Invece Il giardino dei Finzi-Contini è un film che esteticamente regge la prova del tempo. Un capolavoro? Forse no, ma un ottimo film sì.
IL PRIMO CANTO SUL DOLORE DELLA SHOAH DEL CINEMA ITALIANO
Ancora oggi dopo la visione, una delle scene più riuscite, a mio avviso, che rimane negli occhi e nelle orecchie, è quella finale con la camera chiamata a inquadrare i tetti di Ferrara, al di là dei vetri della scuola. La città è silente, la musica di Manuel De Sica si è da poco spenta. Il musicista decide per l’inserimento del canto rabbinico, un inno al dolore, alla Shoah subìta. È il primo canto rabbinico che il cinema europeo faceva conoscere al grande pubblico, prima di quello altrettanto bello e intonato di Moni Ovadia in La settima stanza (1995) di Márta Mészáros.
UN FILM PER NON DIMENTICARE
Vittorio De Sica, negli anni in cui gli intellettuali e la cultura engagé, esaurito il mito dell’Urss (due anni dopo la invasione della Cecoslovacchia), guardavano al nuovo mito politico-sociale della Cina comunista, seguivano galvanizzati la contestazione studentesca, si schieravano, giustamente, contro la guerra in Vietnam, ma avevano dimenticato la Shoah, aveva il coraggio di ricordare la piccola-grande tragedia degli ebrei italiani, prima esclusi dalla vita sociale, e poi deportati nelle camere a gas. Andate a prendere i testi di storia adottati nelle scuole degli anni Sessanta, e vedete come l’argomento (non) fosse trattato. Se oggi molti studenti tornano a leggere il romanzo di Giorgio Bassani lo devono anche a quei docenti che proiettano il bel film di Vittorio De Sica.
(Foto-Cover Dvd)