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Hong Kong, Joshua e Huawei. Parla Sunny Cheung

“Sto con Joshua dal giorno zero. Non so quando lo rivedrò”. Sunny Cheung, uno dei leader del movimento democratico a Hong Kong, fa un appello all’Italia per difendere Joshua Wong e gli altri attivisti incarcerati. Dalle sanzioni ai legami con Huawei, ecco come smuovere le acque

Non vede Hong Kong da quattro mesi. Ad agosto ha dovuto abbandonarla, in esilio. “Ma spero di tornarci. Spero di rientrare un giorno in una Hong Kong libera”. Sunny Cheung tradisce un filo di emozione. Volto di punta del movimento democratico honkonghese, dalla rivolta degli ombrelli alle proteste della scorsa estate, risponde al telefono da qualche parte all’estero, non può dire dove. Pensa a Joshua Wong, il suo amico e compagno di battaglie, stessa età, 24 anni. In cella da una settimana, quando si è consegnato insieme agli attivisti Agnes Chow e Ivan Lam, per scontare una pena di tredici mesi. “Sono davvero scosso – confida Cheung a Formiche.net – sono stato insieme a lui dal primo giorno, abbiamo testimoniato insieme al Congresso americano, viaggiato per il mondo per difendere la nostra causa. Ora io sono qui, e non so quando lo rivedrò”.

Cheung è davvero un veterano della causa, nonostante la giovane età. Anche ai suoi sforzi di lobbying si deve l’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, la legge americana che sanziona alti ufficiali del Partito comunista cinese (Pcc) firmata un anno fa da Donald Trump. Sul suo capo da ottobre pende un mandato d’arresto, insieme all’attivista Nathan Law, per aver partecipato il 4 giugno scorso a una vigilia sul massacro di Tiananmen. Si era guadagnato alle primarie una candidatura alle elezioni generali di quest’anno, prima che fossero rimandate dalle autorità al 2021. “Il regime ha annullato le elezioni. Ci ha inviato una lettera per chiederci pubblicamente la nostra posizione sulla nuova Legge sulla Sicurezza nazionale. Sono stato minacciato”.

Il pensiero vola ai compagni in carcere. “Sono tredici mesi solo sulla carta. Sappiamo che non sarà così. Ci sono altri capi d’accusa su Joshua e gli altri. Verranno confermati dalla corte, e la loro permanenza in prigione sarà prolungata”. Lì sotto, spiega Cheung, i riflettori internazionali, quelli ancora accesi, non possono arrivare. “Tutti lo sanno. Gli attivisti politici ricevono un trattamento speciale. Vengono picchiati, discriminati, sottoposti a condizioni molto più dure degli altri prigionieri”.

Ma abbandonare ora le speranze significa calare il sipario, continua. “La comunità internazionale può fare la differenza, dovete credermi. A partire dall’Italia. Il mio amico Nathan è stato a Roma quest’estate, ha cercato di spiegare quali sono le vere ambizioni del Pcc. Noi speriamo ancora che il governo italiano possa aggiustare la sua politica estera verso la Cina, che possa tener conto dei diritti umani”.

Come? “Ad esempio, soppesando attentamente i rapporti con le grandi aziende cinesi. Non ce n’è una fra le più grandi che non sia tenuta a riferire al Pcc. Nessuna può disobbedire”. Cheung fa un nome noto alle grandi cronache. “Huawei è uno dei casi. Tutti questi giganti hanno rapporti regolari con il partito, bisogna tagliare la loro presenza nelle infrastrutture critiche. Alcuni di loro sono coinvolti nelle violazioni dei diritti umani in Xinjiang contro gli uiguri. In quella regione ci sono campi di concentramento, a questa gente vengono prese le impronte digitali, sono schedati, rinchiusi. Perché così pochi Paesi ne parlano?”.

Il giovane si ferma, assorto. Gli chiediamo cosa si aspetti dall’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca. “Sappiamo che al Congresso c’è un consenso bipartisan per il contenimento della Cina. Trump e Biden sono molto diversi. Biden enfatizza l’importanza del sistema internazionale, del multilateralismo. Tutto giusto. Ma sappiamo che il Pcc è particolarmente abile a penetrare quelle istituzioni, a deciderne le nomine. Lui sarà in grado di prevenirlo?”.



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