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Riforma intelligence e fondazione cyber. I paletti di Borghi (Pd)

Enrico Borghi, deputato del Pd e membro del Copasir, spiega perché la legge 124/2007 sull’intelligence può essere cambiata ma soltanto passando per l’Aula e senza fughe in avanti dell’esecutivo

La vicenda della cosiddetta “Fondazione per la cybersecurity”, di cui le cronache in questi giorni sono piene, andrebbe ricondotta a uno sforzo di merito e di metodo, provando a sottrarla al bailamme che — tra nomine ritardate ai vertici delle agenzie, opportunità di individuazione dell’Autorità delegata e reviviscenza di vicende della torrida estate 2019 — sta crescendo attorno al comparto della sicurezza interna e internazionale.

Se compissimo questo sforzo, ci accorgeremmo anzitutto che l’antico detto secondo il quale in politica la forma è sempre sostanza in questo caso appare più azzeccato che mai.

Ma proviamo ad andare per ordine, fissando un paio di punti essenziali.

Il primo riguarda la forma. Della questione si è discusso in lungo e in largo, dalla prima ipotesi di incursione nella legge di bilancio alla seconda di annunciato inserimento in un maxi emendamento (che peraltro neanche esiste per il regolamento della Camera!), fino ad approdare a una riconduzione in una strada ordinaria e ordinata. E cioè un percorso di approfondimento parlamentare, innescato con una nota del presidente del Consiglio che — dopo una riunione del Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica — ha chiesto al Copasir di avviare una specifica istruttoria in merito. Cosa che il Copasir ha subito fatto. Appare quella la sede naturale, scontata e ovvia per affrontare con dovizia di particolari, e con i dovuti tempi e modi, una materia che incrocia elementi di alta sensibilità istituzionale e di elevata delicatezza tecnico-operativa su una materia come quella della sicurezza del Paese che merita un supplemento di accortezza e l’archiviazione di ogni spericolatezza o faciloneria. Apprendere che vi possano essere possibili by-pass a questa soluzione di ordinarietà parlamentare, mediante ulteriori scorciatoie messe in campo qua e là, non può che far sorgere qualche interrogativo. Nella consapevolezza che ogni fuga in avanti, che smentisse la via ufficiale di coinvolgimento formale e strutturale del Parlamento, è destinata a essere facilmente e piuttosto agevolmente fermata, non essendo — per fortuna della Repubblica — disponibili nelle aule parlamentari i numeri per blitz in materie così delicate e sensibili. Peraltro, il Copasir non è un soggetto di mero ascolto rituale, ma su queste materie è elemento proattivo sostanziale, il cui contributo in passato si sarebbe anche rivelato decisivo se dall’esecutivo in alcune circostanze (vedi vicenda app Immuni) si fossero prestate orecchie attente e non solo funzionali ad un rapido passaggio burocratico.

Il secondo punto essenziale riguarda in merito della vicenda. E qui la questione diventa cruciale. Si argomenta che l’istituzione di una Fondazione per la cybersecurity o di un Centro di ricerca che dir si voglia, sia elemento necessario e indispensabile per la sicurezza nazionale. Arrivando in qualche caso addirittura a spingersi nel declinare il concetto che oggi, con l’evoluzione tecnologica, il perimetro della sicurezza non coincida più con quello dell’intelligence. Tesi piuttosto ardita, come sarebbe stata quella di dire che dopo l’invenzione del laser il campo della medicina non apparteneva più ai medici quanto invece ai fisici. Ma quand’anche così fosse, ed è tutto da dimostrare, bisogna allora comunque tornare agli elementi fondamentali. E cioè alla legge 124/2007 (quella che il premier brandisce in queste ore per giustificare la gestione solitaria del comparto, equivocando sul concetto di fiducia che non è legato all’aspetto personale quanto alla capacità di esercizio di una funzione così delicata), che ha riformato la struttura e l’organizzazione dei servizi segreti e del segreto di Stato in Italia.

Bene, tale normativa in proposito è molto chiara, e stabilisce che le funzioni in materia di sicurezza interna attribuite al Dis, all’Aise e all’Aisi “non possono essere svolte da nessun altro ente, organismo o ufficio”. E per tale ragione, stabilisce che i medesimi soggetti possono stipulare convenzioni e collaborazioni con pubbliche amministrazioni, università ed enti di ricerca per adempiere alle loro funzioni istituzionali. Quindi non esiste nessuna circolazione extracorporea nelle istituzioni repubblicane preposte alla sicurezza: tutto deve svilupparsi dentro il perimetro della legge, con la suddivisione di compiti tra coordinamento (Dis) e agenzie operative (Aisi e Aise), che se ritengono possono avvalersi di particolari competenze a esse esterne riconducendole all’interno della propria sfera di responsabilità.

È talmente chiaro il volere del legislatore in tal senso, che nel prevedere l’istituzione del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) viene previsto che sia un compito particolare di quest’ultimo “accertare il rispetto di quanto stabilito” in materia di esclusività delle funzioni.

Ricapitolando: se si ritiene che alcune funzioni — nevralgiche — debbano essere di pertinenza di un soggetto esterno al sistema previsto dalla 124/2007, al netto delle discussioni e determinazioni in sede politica interne alla maggioranza e — vista la delicatezza del tema — anche con l’opposizione (pratica desueta da “vecchia politica”, lo ammetto, ma indispensabile in un regime democratico), va cambiata la legge. Che essendo normativa speciale, deve avere binari parlamentari (e quindi si torna alla correttezza dell’alveo del Copasir), senza fughe in avanti dell’esecutivo, sia che si chiamino leggi di bilancio, sia che si chiamino decreto, sia che si chiamino Recovery fund.

La gatta frettolosa, come si sa, fece i gattini ciechi. Mentre in questo momento, è il caso di avere una vista molto acuta nel campo della sicurezza interna ed esterna, perché troppi sono gli “alert” e delicatissima è la fase storica che stiamo attraversando.

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