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Io e i soldi miei. Il cashback visto da Giacalone

Al netto del folklore c’è la sostanza del cashback. Ovvero della restituzione di una parte dei soldi spesi mediante carte e altri sistemi digitali. Ci sono delle buone ragioni, ma spiananti la via dell’inferno. Ecco quali

Non poteva mancare una app governativa, denominata Io. Non poteva mancare la difficoltà di registrarsi. Non potevano mancare blocchi, attese e perdite di tempo, naturalmente giustificati, come nei casi precedenti, con il “successo” dell’operazione. Tutto questo è folklore nazionale. Superarlo sarebbe facile, assumendo i gestori dei siti porno.

Ma oltre il folklore c’è la sostanza del cashback (in italiano sarebbe “sconto”, più breve, ma meno fico, “bonus”, latinorum, fu abusato), ovvero della restituzione di una parte dei soldi spesi mediante carte e altri sistemi digitali. Ci sono delle buone ragioni, ma spiananti la via dell’inferno.

La ragione migliore è favorire questo tipo di transazioni, così contrastando l’evasione fiscale. Essendoci un limite di montante è evidente che ci si rivolge all’evasione diffusa, costruita con tante cifre relativamente piccole. A tal fine, però, sarebbe intanto utile potere dotare di questo strumento chi lascia la pensione in un conto postale, che, invece, non può disporne. E sarebbe stabilmente utile rendere meno oneroso il possesso delle carte. Ma, insomma, qualche cosa è meglio di niente. Solo che se una misura è già percepita come temporanea crea una torsione altrettanto temporanea.

I guai cominciano quando il governo pretende di dirmi dove devo spendere i miei soldi, sostenendo che lo sconto non vale se faccio gli acquisti in rete. Orrore! La logica, suppongo, sia quella di agguantare una seconda buona ragione, ovvero favorire i concittadini negozianti, che hanno pesantemente sofferto. Mentre le piattaforme di commercio on line sono patria delle multinazionali (e qui si facciano gli scongiuri).

Già, peccato che a multinazionali o, comunque, non a capitale nazionale facciano capo anche catene di negozi o supermercati. La cosa non mi sconvolge punto, ma se l’idea era quella di favorire solo Ciccio il salumaio avverto che s’è presa male la mira. E siamo solo al peccato minore.
Quello maggiore è che un Paese con tanti e pregevoli piccoli produttori dovrebbe trovare nelle vetrine digitali una loro valorizzazione, mentre penalizzare quel tipo di commercio è darsi la zappa sui piedi. Una piccola cantina vinicola non si può permettere, né per costi né per quantità prodotta, distribuzioni in grande scala, ma grazie al commercio in rete può vendere in tutto il mondo (se finirà le bottiglie alzerà il prezzo, aumenterà i profitti, farà investimenti, aumenterà la produzione e cin cin).

Il caseificio eccellente, che fornisce a Ciccio i suoi prodotti, può ben continuare a crescere vendendoli anche a chi Ciccio non lo conosce, non vive nella stessa sua città, provincia, regione o paese. Non solo non c’è nulla di male, ma tutto di bene. Ma no, secondo il governo se compro in quel modo non ho diritto allo sconto. Dovremmo fare l’esatto opposto: portare tutti i nostri produttori in quel meraviglioso centro commerciale immateriale, che a sua volta ha bisogno di logistica, creando molto lavoro e favorendo molta produzione. Né questo ucciderebbe Ciccio, perché se ho bisogno di un etto di salame correrò da lui.

Poi c’è l’altra faccia della medaglia, dal lato del consumatore: visto che lo sconto è alimentato con i soldi che verso in quanto contribuente, come vi permettete, con i miei soldi, di dirmi dove devo andare a spendere quelli che, graziosamente, mi lasciate? Ci faccio quello che mi pare e con chi mi pare, sempre nel rispetto delle leggi.

Se istituite uno sconto di Stato, in quel modo concepito, otterrete il solo risultato di consolidare un’arretratezza del mercato italiano. Per giunta colpendo laddove l’evasione fiscale è già contrastata.

Certo, poi c’è Io che funziona come Lui, ovvero come Loro, le altre applicazioni di Stato. Ma, mi raccomando, chiamatele app, o, meglio: application. Oh yes.


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