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Afghanistan. Tutti d’accordo sui negoziati (per ora)

hong kong

Le evoluzioni al tavolo di contatto intra-afghano vengono accolte positivamente da tutti, nonostante il problema Talebani sussista

Una buona notizia per Donald Trump, ancora attivo come presidente uscente ma chiaramente con poche prospettive, è arrivata da Doha. Nella capitale del Qatar sono incorso le stremanti trattative tra governo afghano e Talebani, e sembra che si sia finalmente trovato un accordo sulle regole procedurali con cui portare avanti i contatti per la ricomposizione del Paese. La mediazione, frutto del peso diplomatico americano e del lavorio qatarino, non è però né una pace né una tregua. Per ora solo un’intesa di massima per come procedere con i negoziati — che prevedono come obiettivo la smilitarizzazione frutto di un trattato di pace vedo e proprio ancora molto distante. Stando alla situazione, è prevedibile che i governativi continueranno a combattere gli insorti, e questi a compiere attacchi come azioni terroristiche e occupazioni territoriali. La notizia è tuttavia accolta con molta positività.

Sul dialogo intra-afghano c’è una forte pressione internazionale guidata dagli Stati Uniti, che secondo direttiva di Trump vogliono ritirarsi dall’Afghanistan — che, con i suoi 19 anni di impegno, delle “endless war”, come le chiama lui, è quella più rappresentativa. Le evoluzioni verso il procedere delle trattative sono accolte positivamente anche dagli alleati. La Nato, per esempio, coinvolta per volere di Washington da altrettanti anni, ringrazia le parti e chiede che adesso la roadmap evolva rapidamente. Anche gli alleati vogliono ritirarsi, ma il problema è “l’alto livello di violenza” nel Paese — come viene sottolineato da Londra reagendo alla notizia dell’intesa procedurale. Recentemente i Talebani sono sembrati interessati ad aumentare la quantità di operazioni in modo da potersi presentare al negoziato più forti. Ed è del tutto possibile che certe attività continueranno meglio se, come previsto dall’amministrazione Trump, la metà delle truppe statunitensi ancora presenti nel Paese verrà ritirata entro il 20 gennaio.

Il rientro dei militari, che potrebbe seguire per procedimento e tempi quello dalla Somalia (altro teatro delicatissimo in cui Trump è stufo di veder impegnati i suoi uomini), non è un semplice capriccio del presidente. Sebbene i pianificatori (tra esperti del dipartimento di Stato, del Pentagono e dell’intelligence) ritengano che possa essere una decisione che rischia di stravolgere negativamente il quadro, tra l’opinione pubblica americana (e locali) c’è largo sostegno alla ritirata. Certi fronti hanno portato già negli anni troppi morti e troppe spese senza altrettanti risultati. D’altronde, se sia in Somalia come in Afghanistan a distanza di quasi due decenni di operazioni ci si trova ancora davanti al rischio che un gruppo jihadista possa trasformarsi in forza di insurrezione generale e prendere il Paese, un mea culpa tecnico va fatto; se le istituzioni politiche e militari di questi Paesi non sono ancora in grado di reggersi in piedi serve una valutazione.

Queste decisioni dell’amministrazione Trump sono subite dal presidente eletto Joe Biden, che poi si troverà a fare i conti con le conseguenze, oppure il democratico le vede come un modo per risolvere una questione delicata? L’eredità da pacifista e risolutore drastico e popolare (o populista?) che Trump vuol lasciare ai posteri è conveniente anche per Biden? Da molti anni chi ritira le truppe dal fronte ottiene consensi pubblici (non a caso il processo è iniziato con Barack Obama, che ne aveva già fatto un claim nella campagna elettorale del 2008). Biden potrebbe accettare la scelta di Trump, tra moniti pubblici e condivisioni di intenti informali, avrebbe anche la scusa nell’addossare la decisione al suo predecessore e avere le mani legate su eventuali conseguenze. Certo, c’è da ricordare che il ritiro obamiano dall’Iraq si portò dietro la crescita fuori controllo di quel gruppo insorgente radicale sunnita che poi, il 29 giugno 2014, autoproclamò il Califfato. Il rischio è anche che i ribelli jihadisti afghani si mostrino più aperti per mettere una cortina fumogena tra loro e Biden, rassicurare sulle loro intenzioni il nuovo presidente, assicurarsi l’avvallo del ritiro e il continuo dei colloqui, covando l’ambizione di trasformare il Paese nel loro califfato.


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