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La giustizia fallimentare può far fallire l’Italia. Scrive Benedetto

Un giudizio in sede penale come quello su Saipem, si risolve a 10 anni dall’inizio dello stesso. Si disquisisce spesso sulla lentezza della giustizia civile, è evidente che anche la giustizia penale in Italia soffre dello stesso male. Per questo sarebbe opportuno che tra i fondi del Recovery una parte venga dedicata alla riforma della giustizia. Il commento di Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Luigi Einaudi

Il 14 dicembre 2020 la Corte di Cassazione ha pronunciato la definitiva decisione sul ricorso proposto, il 12 giugno 2020, dalla Procura Generale presso la Corte di Appello di Milano avverso la sentenza di secondo grado nel procedimento relativo a fatti di reato asseritamente commessi in Algeria da Saipem e da suoi dirigenti, fino al marzo 2010, in relazione ad alcune commesse completate da tempo.

Saipem quotata alla Borsa di Milano, è presente in più di 70 Paesi del mondo e impiega 34 mila dipendenti di 120 diverse nazionalità. Non conosco la vicenda, non mi interessa e, aggiungo, non deve interessarci. Il  merito di una questione giudiziaria si affronta nel luogo deputato alla questione: i Tribunali del nostro Paese.

Ma un dato salta subito agli occhi dalla notizia che ho riportato: un giudizio, si badi bene in sede penale, si risolve a 10 anni dall’inizio dello stesso. Si disquisisce spesso sulla lentezza della giustizia civile, è evidente che anche la giustizia penale in Italia soffre dello stesso male. Si badi bene il caso citato non è una eccezione, è pressoché la regola vigente nel nostro sistema giudiziario.

La bozza del piano predisposto dal governo per la gestione dei miliardi, che saranno attribuiti all’Italia nell’ambito del Recovery Fund, dedica ben 11 pagine (da 29 a 39), su 124, alle riforme in tema di giustizia. È il primo argomento, in tema di riforme di sistema, a essere affrontato: “Nelle loro decisioni di investimento, le imprese hanno bisogno di informazioni certe sul quadro regolamentare, devono poter calcolare il rischio di essere coinvolte in contenziosi commerciali, di lavoro, tributari o in procedure di insolvenza; devono poter prevedere tempi e contenuti delle decisioni“.

Applausi a scena aperta.

Peccato che nella prosieguo non si intraveda alcuna via da intraprendere che abbia il carattere della efficacia e della snellezza. Parole, parole, parole, cantava Mina in una famosa canzone. E tali sono le buone intenzioni contenute nella bozza di Recovery Plan del governo. Ho esordito con il processo penale continuo con i giudizi civili, amministrativi e contabili.

È di qualche giorno fa la notizia dell’abbandono degli investimenti in Italia da parte di ArcelorMittal. Lo Stato festante subentra nelle acciaierie di Taranto festeggiando il disastro: investitori che fuggono, nazionalizzazioni à gogo, tutto sulle spalle del contribuente italiano, anzi delle sue tasche. Qualunque azione intrapresa in questi anni va esattamente nel senso opposto rispetto alla auspicata riforma di un sistema che fonda sulla lentezza, sulla discrezionalità più assoluta, la sua stessa ragion d’essere.

Consentitemi di tornare sulla sciagurata riforma della prescrizione emblematica della volontà di questo governo. Invece di operare per lo snellimento delle procedure nel processo penale non si è fatto altro che procedere all’allungamento a dismisura, qualche volta vita natural durante, dei tempi processuali. Così facendo come si può pensare che una società estera possa scegliere di venire in Italia ad investire? La risposta attiene a faccende esoteriche, non alla ragione.

Anche qui il problema è sempre lo stesso. Ancor prima di pensare alla digitalizzazione, pur necessaria, ad assunzioni, pur indispensabili in alcuni comparti del sistema giustizia, la questione va affrontata sotto un profilo eminentemente culturale. Quando oltre il 50% dei processi in Italia si conclude con una assoluzione, allora delle due l’una: o è incapace il nostro sistema di individuare i responsabili di determinati reati, o molto più probabilmente il meccanismo è inceppato da anni per il mancato, necessario, completamento di quanto previsto dall’articolo 111 della Costituzione.

Il compimento della riforma del rito accusatorio vuol dire superare la obsoleta obbligatorietà dell’azione penale e procedere senza indugio alla riforma delle riforme: la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante. Insomma, la repubblica panpenalistica dove ognuno pensa di risolvere le questioni in un’aula di Tribunale è quella che ha portato il sistema Paese nello stato in cui oggi si trova.

Dubito fortemente che questo governo possa anche solo prendere in considerazione una rivoluzione culturale quale che in tanti auspichiamo, necessaria, non più rinviabile.


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