A Bhannine, in Libano, sabato sera è stato dato alle fiamme il campo informale dove 370 profughi siriani vivono da anni in tende. C’è stata tanta indignazione e solidarietà con le vittime, ma il fatto rimane e diviene necessario un chiarimento
C’è un piccolo, ignoto villaggio del disastrato nord del Libano che si candida a diventare capitale politico-culturale del Medio Oriente che sta venendo. Questo piccolo villaggio, poco distante da Minieh, si chiama Bhannine. È proprio a Bhannine che sabato sera il campo informale dove 370 profughi siriani vivono da anni in tende, è stato dato alle fiamme da un gruppo di giovani del posto. Ovviamente c’è stata tanta indignazione e solidarietà con le vittime. Ma il fatto rimane e diviene necessario un primo chiarimento. Come mai in Libano ci sono campi profughi informali per fratelli arabi, siriani? Perché Hezbollah, potente alleato libanese di Assad, dal 2011 non ha consentito la costruzione di campi profughi, per evitare che le tendopoli danneggiassero l’immagine del regime amico. Così i profughi siriani vivono in piccoli campi informali su appezzamenti privati di territorio, dove si paga l’affitto del terreno, sovente vecchi campi di coltivazione di patate.
A Bhannine non si è salvato nulla, a cominciare dalle bombole del gas che nel rigore invernale scaldavano quei miseri alloggi. Le loro esplosioni hanno richiamato l’attenzione di molti nel vicinato, facendo temere qualcosa di più grande. I libanesi conoscono il rumore delle esplosione e ne conoscono le conseguenze. Domenica mattina, dopo ore di ricerche, si è appurato che tutto era andato perso, tranne le pietre alle quali le tende erano legate.
L’episodio è stato presentato come inatteso, una dolorosa provocazione, ma Operazione Colomba, presente in Libano da anni nel lavoro di assistenza ai profughi siriani per conto della Comunità Giovanni XXIII e tassello centrale nell’organizzazione dei corridoi umanitari, già il 4 dicembre scorso avevano espresso “forte preoccupazione per i gravi episodi di razzismo avvenuti in Libano nei giorni scorsi ai danni dei profughi siriani”. Dunque più che un “episodio isolato” si può parlare di un “nuovo livello” di rabbia – sfogata nell’odio per l’altro – raggiunto in Libano contro i profughi siriani. Un fuoco che bisogna capire.
Il Libano è un Paese di circa 3,5 milioni di abitanti: qui dal 2011 sono arrivati 1,5 milioni di profughi siriani, deportati dal regime di Bashar al Assad, che per riprendere il controllo del territorio ha deciso di liberarsi della popolazione ritenuta etnicamente o religiosamente non fedele, per un totale di circa 6 milioni di persone su 20 milioni di siriani. Se si tiene conto dei defunti, degli internati e dei rifugiati interni, rimasti intrappolati in Siria, impossibilitati a tornare nelle loro case e costretti in campi profughi soprattutto nel nord del Siria dove sono stati forzatamente deportati, si arriva a più di 10 milioni di persone.
Il Libano da subito è stato coinvolto nel conflitto siriano dall’intervento militare di Hezbollah al fianco del regime di Assad e questo ha avuto molte conseguenze: politiche, confessionali ed economiche, tra le altre la riduzione del sostegno finanziario dai Paesi del Golfo. Complice anche una classe politica capace di non ricostruire la centrale elettrica del Paese, preferendo l’acquisto di energia da navi internazionali per un esborso di 40 volte superiore nel decennio al costo complessivo della centrale stessa, il Paese è sprofondato nel default economico, che ha ridotto sul lastrico la popolazione: un dollaro fino a un anno fa valeva 1500 lire libanesi, oggi ne vale 8mila. Il valore d’acquisto degli stipendi è crollato, i costi delle merci salgono quotidianamente. Moltissime scuole private sono fallite o stanno per fallire, le banche hanno bloccato tutti i conti correnti privati in valuta pregiata e per di più sul Paese si è abbattuta la catastrofe del 4 agosto, quando una misteriosa esplosione di migliaia di tonnellate di nitrato d’ammonio tenuto da lustri nel porto commerciale ha distrutto il porto e migliaia di abitazioni limitrofe. Ancora oggi nulla si sa sulla reale dinamica di quell’esplosione; di più, la comunità internazionale ha offerto il suo aiuto dopo l’esplosione che portò un’ondata di rabbia tale da imporre la crisi il governo: ma da allora il nuovo governo ancora non si è formato per le dispute sulla spartizione dei principali portafogli di spesa. Da cinque mesi il Paese è governato da un governo che può occuparsi solo del disbrigo degli affari correnti. Appare evidente che il governo libanese non si forma per giochi politici regionali che vogliono fare del Libano una pedina di scambio nel nuovo corso che si determinerà quando si insedierà l’amministrazione Biden.
Così è molto difficile non dare ragione al famoso opinionista libanese Michel Haj Georgiou, per il quale quanto accaduto sabato sera ha una causa evidente: “Quando una vittima non può reagire contro il suo carnefice si scaglia sempre contro uno più debole di lui”. E colpisce il silenzio delle due forze più importanti dell’attuale sistema politico libanese, Hezbollah e il Fronte patriottico guidato della famiglia maronita dell’ex generale Aoun, attuale capo di Stato. Da loro non risultano pervenuti commenti sul rogo di sabato notte. È noto che il leader del partito, l’ex ministro degli esteri e cognato del capo dello Stato libanese, ha indicato da tempo nei profughi siriani la causa dei problemi libanesi, invocandone l’espulsione verso il loro Paese d’origine, dove alcuni di loro sono stati forzatamente ricondotti per poi sparire nel nulla. Ecco per quale motivo i profughi, pur non felici delle loro condizioni di vita in Libano, non rientrano in patria, per non essere internati nei lager dal regime che li ha espulsi.
Spingere sul conflitto “etnico”, libanesi contro siriani, rimuove le cause dei connessi disastri, le colpe politiche e le responsabilità personali. Si crea un “noi” contro “loro” siro-libanese che rischia di creare un precedente esportabile all’estero, dove i profughi siriani sono tantissimi, a cominciare dalla Turchia. Anche lì una leadership in crisi di consensi per il disastro economico in cui ha gettato la popolazione spinge con forza sul tasto identitario, nazionalista, pan-turco, come indicano le avventure nel Caucaso, e il malcontento per la presenza in Turchia di milioni di profughi siriani potrebbe condurre presto a derive simili. Così la sconosciuta Bhannine rischia di diventare un “faro”, o una torcia regionale.